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Edizioni don Giulio Gabanelli, stampa Carminati Stampatore, Almè - Zogno

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Il Brembo svela un nuovo capitolo di Storia della Valle Brembana

(n.6, dicembre 1987)

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Tra i manufatti illustrati nella parte precedente il primo ad attirare l'attenzione per le particolari condizioni di ritrovamento è la fontana d'angolo rinvenuta a S. Giovanni Bianco.
Quest'opera infatti risulta ancorata ad un poderoso zoccolo di roccia che costituisce il fondo dell'alveo del Brembo ed è incompiuta. Probabilmente una piena improvvisa del fiume, ricoprendo ogni cosa di sabbia e di ghiaia, ha costretto lo scalpellino ad abbandonare per sempre il suo lavoro o, forse, la morte del committente ha causato l'arresto dell'impresa e poi l'azione del fiume col tempo ne ha cancellato le tracce.
In ogni caso la parte completa del manufatto presenta una rifinitura estremamente curata e una forma geometricamente perfetta. Tali caratteristiche inducono a pensare che questa fontana non sia molto antica e che risalga ragionevolmente alla seconda metà del 1700.
L'aspetto più interessante del manufatto è comunque la forma (la sezione orizzontale è un quarto di cerchio) che risulta abbastanza inconsueta per una fontana. Tale caratteristica rivela che questo oggetto fu scolpito non solo con lo scopo di raccogliere e conservare l'acqua ma anche con quello di abbellire l'ambiente, di offrire un'immagine piacevole alla vista in altre parole con lo scopo di costruire un oggetto di ornamento.         
Ciò significa che il proprietario di quella fontana, pubblico o privato che fosse, potendo concedere qualche cosa all'estetica nel fondamentale problema di procurare l'acqua godeva di condizioni economiche favorevoli.
Di condizioni di vita ben più difficili narrano invece le peste o macine rinvenute a Mezzoldo e a Valleve.
La loro forma è molto approssimativa, quasi arcaica, poichè lo scalpellino anzichè plasmare la roccia seguendo un'immagine ben definita nella propria mente si è adeguato alla forma originale del masso cercando di sfruttarne al meglio le caratteristiche. Il risultato è stato uno strumento di lavoro rozzo ma essenziale così come erano essenziali gli schemi di vita dell'uomo che quello strumento usava. Bisogna sapere infatti che queste peste erano utilizzate nel Medioevo per frantumare e macinare frumento, orzo, segala, miglio ed altri tipi di semi prima che si diffondesse in modo sistematico l'uso dei mulini azionati ad acqua. Erano per lo più le donne a svolgere questa attività: munite di due pesanti bastoni colpivano ripetutamente e alternativamente i mucchietti di chicchi deposti sul fondo delle cavità o olle. La presenza di più cavità permetteva di macinare, a parità di tempo, una maggior quantità di semi dello stesso tipo oppure semi di tipo diverso evitando il reciproco mescolamento. Si trattava per le donne di un lavoro senza dubbio massacrante imposto dalla scarsità delle fonti alimentari. Quasi di certo vi era una macina di questo genere ogni due o tre famiglie.
Sul finire del Medioevo con l'accrescersi della popolazione e col formarsi delle prime comunità (in valle Brembana ciò accadde attorno al 1100) si manifestò una evoluzione nella tecnica della macina dei cereali che corrispose alla nascita di una nuova figura sociale: il mugnaio.
Gli uomini infatti capirono che era più conveniente anziché spendere molte ore della giornata a produrre la farina per un uso singolo o famigliare, affidare questo compito ad una persona la quale svolgesse tale lavoro a tempo pieno per tutta la comunità, per l'appunto il mugnaio, permettendo così ai capifamiglia e alle donne di dedicarsi in modo più efficiente ad altre attività non meno indispensabili al vivere quotidiano. Per soddisfare queste esigenze l'uso esclusivamente manuale delle macine in oggetto divenne meccanico, semi-automatico, grazie ad un principio molto semplice che trasformò il movimento rotatorio verticale di una ruota azionata dall'acqua in movimento rettilineo verticale alternato secondo lo schema illustrato nella foto 2.
Il passaggio da questa macchina elementare detta pestone (in dialetto pestù) al mulino tradizionale così come fu conosciuto dai nostri genitori, e come si può vedere ancora oggi attivo in un esempio ormai unico a Zogno in via Locatelli, fu breve. Il mulino classico infatti grazie ad una coppia di ingranaggi di legno trasformava il movimento rotatorio verticale della ruota idraulica in movimento rotatorio orizzontale di una macina di pietra (palmento) che sfregava al di sopra di una macina fissa, pure di pietra, ottenendo vari tipi di granelli di farina. Allo stato attuale delle conoscenze non risulta la presenza del tradizionale mulino ad acqua in valle Brembana in tempi anteriori al 1300.
Prima di proseguire è doveroso puntualizzare il seguente fatto. I mulini ad acqua erano noti per la verità anche in epoca romana come risulta dallo scrittore latino Vitruvio che ne dà una dettagliata descrizione nella sua opera "De Architectura, libri decem". Tuttavia la civiltà romana, anche per la scarsità d'acqua nel meridione d'Italia, preferiva macinare i cereali ricorrendo all'uso di muli o cavalli, non di rado accecati, costretti a camminare sempre in tondo i quali trascinando una lunga sbarra imprimevano il movimento rotatorio alla macina vera e propria.
Dopo la caduta dell'Impero Romano cinque secoli di invasioni barbariche cancellarono dalla cultura delle genti italiche queste conoscenze tecniche sicchè nell'alto Medioevo gli uomini ritornarono ad usare metodi di macina solo manuale, in pratica preistorici. Le peste ed i mulini ad acqua, rarissimi, che sono segnalati poco prima del 1000 nelle comunità più sviluppate dell'Italia del Nord come Pavia, Milano, Trento e Padova sono da considerare dunque delle reinvenzioni. Per la valle Brembana invece questi strumenti furono delle novità assolute. Riprendendo il filo del discorso è interessante ricordare che dopo l'introduzione del mulino ad acqua il pestone continuò ad essere usato non più come strumento finale per produrre la farina ma come supporto all'azione del mulino. Infatti le grosse scaglie di chicchi ottenute in modo preliminare con i colpi violenti della pesta meglio si adattavano all'azione abrasiva più lenta e più precisa delle macine dei mulini.
Per questo motivo "ol pestù a aqua" fu utilizzato in tutti i secoli successivi alla sua introduzione, in pratica fino alla seconda guerra mondiale come testimoniano il sig. Angelo Merelli di Rosolo in valle Serina e il sig. Armando Pellegrini di Capizzone in valle Imagna proprietari per motivi di eredità di due macine del tutto simili a quelle di Mezzoldo e di Valleve, anche se di origini meno antiche.
Nel corso dei secoli il pestone servì anche ad usi diversi dalla produzione della farina. Ad esempio nel 1596 il Capitano di Bergamo Giovanni da Lezze nella sua nota relazione al senato veneto scrive che a Fondra "... si pestano ancora oltra i grani li scorzi de gl'arbori (cortecce) detti pezze facendosi in polvere, la qual si adopera nel conzar i corammi (conciare il cuoio), benchè non sia perfetta come quella de Bologna et di questa se ne fa gran quantità per la comodità et abondanza de legni vendendosi soldi 4 il peso de lire 25 piccole il peso ..." (1).
Un altro uso consisteva nello schiacciare le noci senza guscio per ottenerne una poltiglia che veniva poi pressata sotto un torchio per ricavarne olio (2). Dopo l'introduzione del granoturco in valle attorno al 1630, l'uso delle peste si applicò anche alla frantumazione, sempre preliminare, dei grossi chicchi di questa pianta.
Per quale motivo le macine in questione sono molto antiche? Oltre alla loro fattura a testimoniare la lunghissima età di questi manufatti vi è pure una ricca serie di documenti. Ad esempio nei luoghi dove tali macine sono state ritrovate è segnalata l'esistenza di un mulino solo nelle mappe catastali austriaca e napoleonica di Mezzoldo, mentre non vi è alcuna traccia in quelle di Valleve (3).
Nell'analoga mappa di Cambrembo è segnato solo il toponimo "Casa del Molino" su un appezzamento di terreno nello stesso punto in cui si è rinvenuta la ruota da mulino, assai usurata, cento metri al di sotto dell'attuale ristorante "la Sponda". Tuttavia l'assenza di qualunque costruzione in quei tempi dimostra che quel toponimo sta a indicare l'esistenza di un mulino in quel luogo in un'epoca anteriore agli inizi del 1800. Tutto ciò spiega perchè gli anziani di Mezzoldo, Valleve e Cambrembo non ricordano, nemmeno per sentito dire dai loro padri, la presenza di mulini o peste nei luoghi dei ritrovamenti (4).
In effetti in una statistica anagrafica e catastale del periodo veneto riguardante il territorio bergamasco sia per Mezzoldo che per le comunità unite di Valleve e Cambrembo è segnalata l'esistenza di mulini con relative "peste et mole" per tutto l'arco di tempo compreso tra il 1766 e il 1789 (5). In epoche ancora più antiche si hanno riscontri nella nota relazione del 1596 del Capitano Giovanni da Lezze il quale afferma che sia nella valle di Olmo che in quella di Branzi esistevano da tempo varie peste in rapporto di 1 a 2 con il numero dei mulini ad acqua. Non si conoscono al momento documenti con questo contenuto, relativi all'alta valle, anteriori all'inizio del governo veneto. E' ovvio comunque che il buon senso induce a pensare che strumenti di questo genere dovevano essere utilizzati in alta valle anche in secoli anteriori a questa data.
Sorge a questo punto una questione. Poichè Mezzoldo è situato alla quota di 900 metri sul livello del mare e Valleve e Cambrembo alle quote rispettive di 1200 e 1300 metri nessun tipo di cereale può giungere a maturazione in questi luoghi. Ciò significa che i grani macinati in tali paesi provenivano dalla media e bassa valle Brembana o addirittura dalla pianura bergamasca. D'altra parte l'esistenza di mulini o peste ad uso collettivo sottintende la permanenza stabile di una comunità in una data località. Poichè l'alpeggio sui monti attorno ai paesi citati poteva (e può) essere esercitato solo nei tre mesi estivi e il taglio dei boschi era effettuato di preferenza all'inizio dell'autunno doveva esserci qualche altra attività, in tempi lontani, che giustificasse la costruzione di un edificio come quello di un mulino o di una pesta e il trasporto fin lassù dei grani da macinare cioè un investimento economico impegnativo. Questa particolare attività era l'estrazione dei minerali ferrosi da quelle montagne.
E' noto che nei secoli scorsi dai monti dell'alta valle Brembana si estraeva il ferro sia pure in quantità limitate. Quanto fosse antica questa attività è però ancora oggi un fatto incerto e controverso tra gli studiosi di storia locale. La ricerca condotta nel tentativo di sapere qualche cosa di più sui manufatti portati alla luce dalla scorsa alluvione del Brembo ha permesso di reperire alcuni documenti che aprono nuovi spiragli anche su questo argomento che meriterebbe uno studio specifico. Le informazioni più dettagliate e più antiche sull'estrazione del ferro in alta valle sono contenute nella citata relazione del Da Lezze il quale nel 1596 indica la presenza di varie miniere nei monti "Camisol" (Camisolo alla testata della Valtorta) e "Parizzolo" (in corrispondenza della diga di Valmoresca sulla destra orografica), nelle cime che sovrastano Fondra e soprattutto nel cosidetto "monte Sasso" nel territorio comunale di Carona. Queste miniere alimentavano rispettivamente i forni fusori di Cassiglio, Averara, Carona, Branzi e Lenna.
Questi forni risultano tutti presenti e in piena attività durante il corso del 1600 e del 1700 (5). Nei primi anni del 1800 essi sono ancora funzionanti ma due (Carona e Lenna) solo in modo intermittente, cioè non continuativo, per la scarsità del minerale e del carbone ricavato dalla legna. Nel 1814 il ferro prodotto in tutti questi forni in totale fu di circa 3000 quintali (6).
Dall'epoca del Da Lezze alla prima metà del 1800, quando cessò l'attività mineraria, i centri estrattivi del ferro rimasero sempre gli stessi come è confermato da vari documenti. Le località più ricche di minerale erano quelle situate nel territorio di Carona tra cui si devono ricordare le "Foppe Carisole" (l'odierna valle Carisole sede del noto centro sciistico), la "val Sambussa" (l'attuale val Sambuzzo) e il "monte Sasso" (la vasta zona compresa tra il monte Masoni e il passo Venina, poco a Nord della località Lago del Prato lungo la strada che da Carona sale al rifugio Fratelli Calvi) (7). Nè la relazione del Da Lezze nè alcun altro documento sino ad oggi conosciuto indica la valle di Cambrembo e la valle di Mezzoldo come possibili centri minerari.
Tuttavia da alcuni documenti inediti presenti nell'archivio di stato di Bergamo si ricava che nei primi anni del 1800 per il fabbisogno di ferro causato dalle incessanti campagne militari di Napoleone furono "sguinzagliate" diverse persone in alta valle con lo scopo di scoprire nuove miniere. In effetti un certo Alessandro Berera di Foppolo ne individuò una nel 1803 mentre i fratelli Giangiuseppe e Franceso Berera insieme all'amico Giovanni Curti ne trovarono un'altra nel 1807 lungo le pendici della "montagna Cadella" non lontano dalla "valle del Forno" nel territorio comunale di Foppolo.
Alcuni esperti minerari di Bergamo dopo aver "fatto saggiare il minerale" nel forno di Branzi e averlo giudicato interessante effettuarono una visita alle due località ma con loro disappunto si accorsero che non si trattava di miniere nuove ma della riscoperta di miniere antiche "che erano in attività fino avanti l'invenzione della polvere (da sparo) da quei tempi in poi abbandonate ..." e che pertanto non potevano offrire la quantità di ferro sufficiente alle esigenze del periodo napoleonico (6). Infatti le due miniere furono coltivate per pochissimo tempo e poi definitivamente dimenticate. L'aspetto importante di questa vicenda consiste tuttavia nel fatto che si dica che tali miniere fossero normalmente attive prima dell'invenzione della polvere da sparo cioè prima del 1400. Ora si deve ricordare che proprio qualche centinaio di metri a monte di Valleve e di Cambrembo, dove sono state trovate le peste e la ruota da mulino, sorge una piccola contrada da tempo abbandonata chiamata "Il Forno" adiacente all'omonima valle e alla base dei contrafforti del monte oggi noto col nome di Pizzo Cadelle. La "valle del Forno" segna inoltre per un buon tratto la linea di confine tra i comuni di Valleve e di Foppolo. Sulla mappa catastale austriaca e napoleonica di Cambrembo questa località è composta da 5-6 case che risultano essere stalle, fienili, casere o "case coloniche" cioè abitazioni di contadini. Non vi è alcuna indicazione di un forno, prova tangibile che non esisteva un edificio di tal genere in quel periodo perchè sarebbe stato di certo menzionato sul libro catastale di Cambrembo a fronte di questi numeri di mappale.
D'altra parte il nome di "Case dette del Forno" assegnato a questa contrada insieme a quanto scritto sopra conferma che in quella località doveva esserci in tempi remoti un forno per fondere il ferro. Ancora oggi del resto lungo i contrafforti del Pizzo Cadelle è facile reperire tracce di siderite (un ossido di ferro) così come vistose sono le discariche dei materiali di scarto da miniera situate quasi in cima ai suddetti contrafforti, sulla destra per chi sale al passo di Tartano da Cambrembo.
Purtroppo non è stata trovata una documentazione altrettanto ricca per giustificare la presenza, in epoche remote, di un forno di ferro nella contrada Scaluggio di Mezzoldo.
Sulle mappe austriache e napoleoniche e sui corrispondenti libri catastali di Mezzoldo e Piazzatorre non vi è traccia alcuna di un forno in quella località. Solo uno studioso del secolo scorso, Maironi da Ponte, accenna brevemente alla scoperta di miniere di ferro nella valle di Mezzoldo ma scrivendo egli nel periodo napoleonico è probabile che alludesse alla riscoperta di miniere antiche come successe per quelle sulle pendici del Pizzo Cadelle.
Pochi giorni dopo il ritrovamento della pesta di Mezzoldo chi scrive ha avuto l'opportunità di vedere alcune di queste miniere grazie alla cortesia del geometra Salvini, ex sindaco di Mezzoldo, che le ha indicate nella località Ponte dell'Acqua non lontano dalla mulattiera (Strada Priula) che sale alla Casa di S. Marco. Si trattava di quattro fori del diametro di 70-80 centimetri, semiotturati, dai quali uscivano spifferi di aria molto fredda, prova inconfutabile che quei fori sono l'ingresso di gallerie che si addentrano nel cuore della montagna per diverse decine di metri.
In mancanza di documenti è molto difficile stabilire a vista l'antichità di queste gallerie ma molti indizi ne fanno sospettare l'origine remota: i resti di scarti da fusione di ferro a Scaluggio, i vasti strati di carbone rinvenuti a Ponte dell'Acqua, la presenza accertata nella seconda metà del 1700 di un grosso maglio per lavorare il ferro alla località "Le Fucine" poco al di sotto del Ponte dell'Acqua (8).
Senza dire che se nel corso del 1500 fossero state presenti e attive delle miniere nelle valli di Mezzoldo e Cambrembo, oppure fosse stato vivo il ricordo di un loro sfruttamento in tempi di poco anteriori, conoscendo la meticolosità e il rigore con cui il Da Lezze descrive il territorio della valle Brembana, egli ne avrebbe certamente accennato. Le miniere di Mezzoldo e di Cambrembo erano dunque sconosciute anche al Da Lezze perchè già a quell'epoca troppo antiche e dimenticate.
Prima di concludere può essere interessante dire qualcosa sulla tecnica di estrazione del ferro per fusione del minerale.
Non si hanno descrizioni dettagliate di questo processo nel Medioevo. Ancora una volta ci viene in aiuto il Da Lezze il quale nel capitolo della sua relazione dedicato alle attività minerarie fornisce numerosi dettagli di questa tecnica che a ragione può essere considerata la stessa di quella medioevale.
Scrive dunque il Da Lezze "... la minera è pietra minerale che si ritrova con pratica et esperientia la quale escavata si conduce fuori alla luce, et posta in una fornace a guisa di quelle di calcina si cuoce riducendola in minute pietre o in polvere, si netta per condurla al fondo per fonderla. Il forno è un vaso murato de pietre coperto, fabricato sopra qualche seriola di acqua che con quella i mantici grandi accendino et mantenghino il foco et con la forza di quello sottoposto si separa il ferro dalla terra; la terra torna a congelarsi in lota et il ferro si riunisce da se stesso indurendosi che poi indurito si porta alle fusine a farsi azzali, et a lavorarsi il ferro".
Risulta evidente da queste righe che il minerale appena estratto dalle viscere della terra subiva un "arrostimento" sommario che serviva a far sbriciolare e a separare la parte di roccia sterile da quella contenente il ferro. Questa specie di prefusione, rimasta nel dialetto degli anziani dell'alta valle col nome di "tostatùra", avveniva appena fuori l'ingresso della miniera, a volte anche ad alta quota, con lo scopo di portare a valle con i muli o sulle spalle il materiale veramente utile. Nel fondovalle era situato poi il forno di fusione vero e proprio in prossimità di adeguati corsi d'acqua in grado di garantire il funzionamento di grandi mantici che servivano a ravvivare il fuoco. Vale la pena di rammentare, per inciso, che nel marzo 1979 fu trovato uno di questi forni in fondo al laghetto artificiale di Carona, svuotato per motivi di manutenzione, e portato al Museo della Valle di Zogno.
Per finire è doveroso rivolgere un pensiero a tutti quegli uomini che a carponi si addentrarono per tanti secoli nelle viscere della montagna lavorando anche oltre i 2000 metri di quota d'estate, d'inverno, in mezzo all'acqua, alla neve, al freddo e al buio.
Mai nessuno saprà quanti di loro perirono per queste condizioni di vita tremende. Mai nessuno saprà quale civiltà inviò per prima sui nostri monti questi martiri a strappare alla Terra i suoi tesori affinchè altri uomini potessero godere di una vita migliore.
Comunque sia, ciò che siamo noi oggi, ciò che è la valle Brembana oggi è scaturito anche dal sacrificio di questi remoti e sconosciuti progenitori.


BIBLIOGRAFIA
1) Nella Biblioteca Civiva A. Maj di Bergamo esiste una copia manoscritta di questa relazione il cui originale è in archivio di stato a Venezia nel fondo: Senato, serie Sindici Inquisitori di Terra Ferma, busta 63.
2) Vedi al proposito anche i numeri di Zogno Notizie del dicembre 1985, febbraio, aprile e giugno 1986.
3) Archivio di Stato di Milano: Mappe cosidette di Maria Teresa: Mezzoldo anno 1812; Valleve anno 1812.  Archivio di Stato di Bergamo: Mappe Catastali del XIX secolo: Mezzoldo anno 1843; Valleve anno 1845.
4) Archivio di Stato di Milano: Mappe cosidette di Maria Teresa: Cambrembo anno 1812; Archivio di Stato di Bergamo: Mappe Catastali del XIX secolo: Cambrembo anno 1845. La casa in parola compare sulla mappa del 1812 ma non su quella del 1845, prova quasi certa che essa è stata distrutta dalla eccezionale piena del Brembo del 1834.
5) Biblioteca Civica A. Maj (BG): Catalogo Nuovo, voce Bergamo - Anagrafe 1766 - 1789.
6) Archivio di Stato di Bergamo: Dipartimento del Serio, serie Commercio, cartella 589. 
7) Come nota 6) ma cartelle: 585, 588.
8) Come nota 6) ma cartella 566. Vedi inoltre la nota 5) e la mappa napoleonica di Mezzoldo citata alla nota 3).


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