Saggi Storici
Quaderni Brembani

Edizioni Centro Storico Culturale Valle Brembana, Corponove, Bergamo

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Innovazioni tecnologiche del Medioevo in Valle Bremana (n. 21, 2023)  

       

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I lettori che appartengono alla generazione di chi scrive hanno appreso nelle scuole di ogni grado e tipo che il Medioevo, l’età di mezzo tra il mondo antico romano e il Rinascimento, è stato un periodo di grande crisi generale ossia di arretramento a livello economico, sociale e culturale per cui si è forgiato l’appellativo di “periodo dei secoli bui”. Negli ultimi 35 anni circa tuttavia nuove scoperte archivistiche e in parte archeologiche hanno permesso di modificare questo giudizio così pessimista che, se appare motivato per i primi tempi subito dopo le invasioni barbariche, non è più accettabile man mano ci si avvicina o si supera l’anno 1000. Infatti subito dopo le invasioni la diminuzione della popolazione conseguente ai massacri, la distruzione delle infrastrutture quali strade e ponti, gli incendi dei villaggi e delle città che hanno cancellato gli edifici simboli del potere e dell’ordine sociale antico quali scuole, templi o prime chiese nonché magistrature e municipi vari, la rovina e l’abbandono dei campi, con conseguenti periodi di carestia, hanno sicuramente indotto nelle persone sopravvissute uno sconcerto generale, una sensazione da “fine del mondo” angosciante e paralizzante che impedì per qualche tempo il ritorno alle condizioni di una vita normale di cui si era perso ogni ricordo. Tuttavia faticosamente, lentamente ma gradualmente in tempi successivi, meno bellicosi, emersero la forza ed il coraggio di queste persone di trasformare la condizione di uno shock tremendo in una opportunità di ripresa e di miglioramento generale grazie alla caratteristica per eccellenza del genere umano, l’intelligenza, vale a dire la capacità di osservare la realtà circostante e di modificarla a proprio vantaggio. In un mondo dove tutto era cambiato, cioè nuovo, queste persone, rimaste anonime, seppero immaginare, realizzare ed applicare per la prima volta dei meccanismi che migliorarono in modo fondamentale per quantità e qualità alcune attività economiche che erano alla base del mondo contadino vale a dire la produzione e la lavorazione di farine alimentari, di abiti, di manufatti in legno ed in ferro con vari scopi stabilendo, attraverso un maggior benessere economico, i presupposti per un miglioramento anche dei rapporti interpersonali e culturali all’interno della società.
Per quanto riguarda la produzione di cibo ci si riferisce naturalmente al mulino azionato dall’acqua. In età romana il principio di funzionamento del mulino ad acqua non sembra sconosciuto in quanto nella località di Barbegal, non lontano da Arles in Provenza, si vedono i resti di un cospicuo acquedotto in muratura che porta l’acqua in cima ad una dolce collina da cui scendono due canali simmetrici e paralleli a poca distanza tra di loro con segnali che l’acqua scorrente in essi doveva azionare otto ruote idrauliche accoppiate su un dislivello di 18 metri in un modo che non è ancora del tutto chiarito essendo perdute le strutture in legno. Questo apparato risale secondo gli archeologi al IV secolo d.C. Un altro esempio di mulino idraulico si ha a Roma sul Gianicolo dove ci sono tracce di una struttura simile che sfruttava l’acquedotto Traiano risalente al 200 d.C. e un terzo esempio alquanto incompleto della stessa età, o poco più tarda, si registra in Portogallo. Vitruvio nel libro X della sua opera De Architectura, scritto attorno al 15 a.C., descrive un mulino idraulico a ruota verticale dotato di numerosi meccanismi di complemento in legno ma non è sicuro se esso sia rimasto un modello o sia stato realizzato sia per la perdita di tali meccanismi nel tempo sia perché non molto aderente agli esempi archeologici giunti sino a noi. E’ certo comunque che la costruzione di mulini idraulici non deve essere stata molto diffusa in epoca romana poiché a quel tempo era grandemente abbondante e disponibile a costo zero la forma di energia rappresentata dalla forza umana degli schiavi e dalla forza degli animali addomesticati. Pertanto è venuta a mancare, come metodologia di base, la spinta indotta da una necessità economica diffusa nella società che tende a sollecitare la speculazione intellettuale cioè la scienza per realizzare concretamente delle macchine che facilitino il lavoro dell’uomo. Le realizzazioni di Barbegal, del Portogallo e di Roma sul Gianicolo appaiono casi sporadici favoriti dalle speciali condizioni di un’agricoltura particolarmente florida e ricca di acque nei primi due casi e dal fatto che a Roma era indirizzata e immagazzinata la gran parte dei cereali provenienti da varie regioni dell’Impero nel terzo caso. La capacità di coniugare l’economia alla scienza ed alla tecnologia, che caratterizza lo sviluppo della società moderna da almeno 200 anni, è mancata insomma in gran parte dell’età romana. Tuttavia essa ha incominciato ad emergere abbastanza presto, proprio agli inizi del Medioevo come si vedrà con il supporto di alcuni disegni dell’autore desunti dai documenti.
Non si sa se alcuni princìpi di base del mulino descritti nel testo di Vitruvio siano stati ripresi grazie alla memoria tramandata dai monaci amanuensi. Il fatto sembra possibile ma non facile in quanto gli artigiani dell’alto Medioevo addetti alla macinazione manuale dei cereali e alla successiva panificazione non sapevano ne leggere ne scrivere. Inoltre nei documenti più antichi dell’alto Medioevo risalenti al X secolo si parla a volte di mulino ma non si descrivono mai i meccanismi del suo funzionamento. D’altra parte in documenti successivi di un paio di secoli non di rado si parla di mulino per macinare ma poi da certe descrizioni sintetiche si intuisce che non sempre si tratta del mulino idraulico a ruota verticale ma di una struttura più semplice, per certi versi più arcaica, che concettualmente precede il mulino idraulico propriamente inteso. Si tratta della cosiddetta pesta il cui scopo è certamente quello di macinare vari tipi di cereali ma secondo un meccanismo diverso. (foto-01) In essa infatti l’asse della ruota idraulica mossa dall’acqua è dotato di alcuni speroni o pioli contrapposti che sollevano alternativamente uno o più pesanti bastoni i quali vengono rilasciati e vanno a colpire per caduta libera la massa di grani posti all’interno di una o più cavità di pietra o olla. Il bastone cadendo non tocca il fondo ma produce una pressione tra i grani e le pareti laterali del contenitore spezzando i chicchi. Per evitare che parte dei chicchi rimbalzi al di fuori del contenitore il bastone nella parte inferiore è circondato da un disco protettivo, in genere fatto di vimini, che fa da coperchio momentaneo al contenitore e che nella figura A non è stato rappresentato per meglio far comprendere il meccanismo di funzionamento. Come è facile capire questa macchina è una trasposizione diretta, semplice e meccanica, cioè automatica, del movimento del braccio con cui le donne manualmente macinavano o meglio pestavano i cereali dedicando con grande fatica molte ore della propria vita a questa attività. I cereali trattati in questo modo erano tutti quelli conosciuti all’epoca: frumento, miglio, orzo, segale, avena, sorgo ma anche castagne secche per produrre farina di castagna. La caratteristica fondamentale di questo dispositivo sta nel fatto che la macinazione dei chicchi avviene per percussione il che produce un macinato dalla grana non molto fine. (foto-02) Questa macchina non è presente nei testi latini non si sa se perché non esisteva o perché fu dimenticata dagli scrittori antichi che consideravano parlare di questi problemi riguardanti una classe inferiore della società, cioè gli artigiani, un fatto poco onorevole e poco dignitoso. Pertanto si deve concludere che nell’alto Medioevo essa fu, se non inventata per la prima volta in assoluto, reinventata e comunque con grande creatività tecnica realizzata in varie forme e dimensioni e diffusa in modo esteso poiché nel XII secolo è citata in tutta l’Italia settentrionale.
L’osservazione attenta del funzionamento della pesta grazie ad una semplice modifica portò alla nascita di una seconda macchina, il follo, indispensabile per rafforzare la struttura delle fibre nei panni di lana e per renderle compatte a tal punto da diventare impermeabili all’acqua. Nel follo i bastoni sono sostituiti da pesanti martelli di legno a testa piatta sollevati e lasciati cadere con un meccanismo simile a quello della pesta figura B sopra i tessuti di lana posti in una vasca immersi in una soluzione di acqua, argilla particolare e soda od anche urina. (foto-03) Scritti risalenti alla fine del XV secolo affermano che grazie a questa tecnica il lavoro svolto prima per trattare questi panni con le mani e con i piedi, come nel caso della pigiatura dell’uva, da parte di uomini e donne in un giorno poteva essere compiuto con tale dispositivo in due sole ore. Se la testa di questi martelli anziché essere piatta era zigrinata o assai ruvida, per una durata inferiore della battitura, i panni di lana anziché compattarsi e infeltrirsi diventavano più soffici, più pelosi cioè più leggeri e caldi poiché i fili di lana venivano semplicemente allargati o sfibrati. L’effetto era simile a quello che oggi si otterrebbe con l’attività di garzatura. In genere dopo questo trattamento i panni subivano la fase della tinteggiatura in un’altra vasca normale di pietra contenente la miscela di acqua e di polvere dei colori desiderati scaldata opportunamente. (foto-04) Si può comprendere dunque quanto sia stato importante e di grande successo e di larga diffusione l’uso di questo macchinario nella confezione degli abiti di lana. Non a caso in territorio bergamasco viene citato già in una pergamena del 12 maggio 1023 in cui Teoderulfo del fu Arnaldo da Borgo di Terzo, arcidiacono della chiesa di Bergamo, dona per il bene della sua anima alla chiesa di S. Vincenzo un prato situato presso la Fontana Bertelli (Bergamo), nonché tutti i suoi beni e case in Bonate Sopra ed una vasca da tintoria situata presso il fiume Brembo “de pertinencia ville Mareliani (di pertinenza del villaggio di Mariano)” presso Dalmine a condizione che tali beni vengano amministrati da suo nipote, Landolfo chierico del fu Valderico. Alla morte di Landolfo l’amministrazione di detti beni spetterà all’arcidiacono della Chiesa bergamasca [1]. Nel corso dei secoli il follo andò incontro a vari sviluppi e servì nella spappolatura degli stracci o delle scorze d’albero per ottenere la materia prima per produrre la carta. Questo diverso utilizzo avvenne per la prima volta a Fabriano nelle Marche alla fine del XIII secolo e si diffuse solo verso la prima metà del XV anche in Lombardia.
Per comprendere meglio il principio di funzionamento del mulino idraulico a ruota verticale, che costituisce uno sviluppo logico e tecnico più complesso rispetto a quello della pesta, non si deve dimenticare che esso è in grado di trasformare un movimento rotatorio verticale in uno orizzontale nel tentativo di simulare e meccanizzare il movimento rotatorio di una macina di pietra fatta ruotare manualmente sopra un’altra pietra fissa come accadeva da millenni in alcune macine manuali che coesistevano accanto alle peste manuali. (foto-05) (foto-06) Una macina manuale di tipo rotatorio assai antica si deve ricordare per inciso che è stata rinvenuta nel 1965 durante scavi presso la piazza Italia a Zogno [2] . Ora il modo più semplice e intuitivo di trasformare un movimento rotatorio verticale in uno orizzontale è rappresentato nella figura C in cui dei rostri o raggi conficcati nell’asse di rotazione della ruota idraulica si incastrano in altrettanti raggi inseriti alla base di un asse in posizione verticale che ruota però secondo un piano orizzontale. Questo modo di trasformare il movimento ha tuttavia dei punti deboli in quanto i raggi avendo una base di appoggio stretta dentro l’asse di rotazione, per la naturale elasticità del legno, tendono a flettersi perdendo parte della loro forza nella trasmissione del movimento. Inoltre questo tipo di incastro tra i raggi dei due assi impone che il secondo asse compia lo stesso numero di giri dell’asse principale o primario. (foto-07) Questo meccanismo dunque risulta utile solo se la macina di pietra collegata all’asse verticale non deve compiere eccessivi sforzi cioè non deve lavorare per frizione o per sfregamento, in cui l’attrito è massimo, ma deve ad esempio rotolare come succede nella figura C che rappresenta un tipo di torchio in cui l’attrito è assai minore e dove la macina rotolando schiaccia vari tipi di bacche o frutti quali le olive o la polpa delle noci o delle mandorle per ottenerne gli olii relativi.
Per vincere l’attrito di sfregamento, tecnicamente detto attrito radente, tra due macine di pietra chiamate mole o palmenti fu indispensabile ripensare l’incastro tra i raggi sopra descritti. Fu un lavoro essenzialmente sperimentale fatto di prove e riprove durato quasi di certo qualche decennio che portò alla novità descritta nella figura D. In essa si nota un disco di legno fissato all’asse della ruota idraulica in cui sono conficcati con un’ampia base di appoggio dei tasselli i quali si devono incastrare in una struttura ingegnosa fissata sull’asse secondario verticale. Questa struttura è costituita da due dischi di legno fissati all’asse secondario con delle zeppe o cunei tra i quali sono conficcati, lungo il bordo circolare, dei pioli robusti a sezione tonda a uguale distanza tra loro in modo da formare una sorta di gabbia cilindrica che tecnicamente si chiama lanterna. Il disco con i tasselli e la lanterna sono rappresentati in figura staccati tra loro per meglio illustrare le loro caratteristiche realizzative. (foto-08) Appare intuitivo che sia il disco primario con i tasselli che la lanterna presentano una struttura assai più robusta e più rigida rispetto alla figura C il che permette di trasmettere tutta la forza dell’asse primario a quello secondario. Il disco con i tasselli e la lanterna quando sono accoppiati cioè incastrati tra loro, tecnicamente si dicono anche sposati, prefigurano un vero e proprio ingranaggio moderno anche se fatto di legno e come l’ingranaggio moderno presentano la fondamentale proprietà che se si utilizza un disco di tasselli più grande, cioè con un maggior numero di tasselli sempre a uguale distanza tra loro, un giro completo dell’asse primario fa fare più giri all’asse secondario con la possibilità di scegliere senza limiti e a piacere il numero di giri del secondario da far corrispondere a un giro completo del primario. Questa semplice proprietà tecnica attraverso un gran numero di prove e riprove, senza grandi speculazioni teoriche, ha permesso ai falegnami, ai mugnai e agli scalpellini dell’epoca in esame di modulare la grandezza della ruota idraulica rispetto alla quantità di acqua a disposizione, al suo salto, alla dimensione e quindi al peso delle macine che sfregano tra di loro per ottenere il numero di giri corretto per macinare le quantità di cereali richieste in tempi assai più brevi di prima. Come conseguenza è stato possibile costruire questo tipo di mulino anche su fiumi o torrenti meno ricchi di acque ma caratterizzati da un percorso con maggiori dislivelli per cui attraverso un passa parola diretto tra gli artigiani, e non attraverso scritti tecnici o letterari, l’uso del mulino idraulico si è diffuso anche in tutte le valli secondarie delle Alpi. Attorno al 1100 il mulino idraulico a ruota verticale è documentato in Italia, in Francia, in Germania e in Svizzera nonché in Spagna. La diffusione molto estesa di questo mulino è senza dubbio una cifra distintiva del Medioevo sia a livello tecnologico che economico per le ricadute estremamente positive nella produzione e preparazione del cibo di base per tutta la società. Anche per il mulino idraulico documenti di poco successivi al XIV secolo testimoniano infatti che la quantità di cereali, prima macinati a mano da due persone in un giorno, potevano essere macinati col nuovo metodo in un paio di ore. (foto-09) Questo mulino tuttavia non ha soppiantato subito la pesta. Le due macchine hanno convissuto per molto tempo poiché la pesta era di più facile costruzione essendo costituita in prevalenza da componenti in legno mentre la realizzazione delle macine o mole, di cui una fissa e l’altra in rotazione, era costosa e dipendeva dal ritrovamento in loco di pietre a grana fine adatte a realizzare questo reciproco sfregamento. Inoltre una delle mole sul lato interno presenta delle incisioni radiali che migliorano la polverizzazione del macinato e che hanno lo scopo di raccoglierlo all’esterno ma che devono periodicamente essere rifatte a causa dell’usura, previo lo smontaggio non semplice di tutta la struttura. Nel corso dei secoli tuttavia la possibilità di avere col mulino di pietra un macinato polverizzato che meglio si adattava a vari tipi di impasto e a una cottura più veloce e più omogenea soppiantò la pesta. Quest’ultima sopravvisse ancora per qualche tempo grazie al fatto che il suo telaio di legno era facilmente smontabile e quindi poteva essere utilizzata in modo manuale, come in epoche primitive, in periodi di particolare siccità quando l’acqua dei torrenti veniva a mancare. Alla fine la pesta si ridusse a macinare cereali che in passato furono destinati all’alimentazione degli animali come l’avena e il sorgo. Non si può concludere l’illustrazione del mulino idraulico senza osservare che nei documenti del Medioevo, in cui appaiono per la prima volta cenni descrittivi di questa macchina, anche ricercatori storici locali di provata competenza spesso confondono il mulino propriamente inteso con la pesta che era nei primi tempi del Medioevo di certo più diffusa. Ora se è vero che anche la pesta in fondo macinava cereali come il mulino si è visto tuttavia che il loro principio di funzionamento, la loro struttura tecnica e la loro gestione pratica erano assai diverse per cui si deve ammettere che si è di fronte a due macchine non sovrapponibili, ciascuna dotata di una propria e inconfondibile identità. Basterà riassumere le differenze dicendo che la pesta operava per percussione mentre il mulino per frizione. Quindi è opportuno per motivi di precisione e di documentazione storica tenere sempre distinte le due macchine. Per inciso è interessante ricordare che pochi anni prima del 1200 dati archeologici e alcune descrizioni presenti in pergamene di poco successive testimoniano l’esistenza di numerosi mulini a vento nella Francia del nord, in Provenza, nelle Fiandre e nell’Inghilterra meridionale. Questo mulino funziona con lo stesso principio logico e tecnico del mulino idraulico con la sola differenza che l’asse primario non è mosso dalla forza dell’acqua in caduta libera ma dalla forza del vento che sbatte su vele disposte in modo obliquo rispetto alla direzione del vento sopra telai di legno fissati rigidamente all’asse primario per formare una sorta di girandola o elica. Questo meccanismo è un’innovazione tutta medioevale poiché ad oggi non risulta che il mondo antico romano sapesse sfruttare la forza del vento per utilizzi diversi da quello di muovere le barche e le navi sui mari. Ciò conferma il grande spirito di osservazione della natura e l’acume e la flessibilità intellettuale nel risolvere i problemi da parte di certi artigiani del Medioevo.
Un altro meccanismo capace di svolgere un lavoro automatico importante è costituito dalla segheria ad acqua. In questo caso esiste un dato archeologico risalente al III secolo d.C. proveniente dalla città di Hierapolis nella Frigia, ossia in Turchia nella zona occidentale dell’Anatolia, dove su un lato di un sarcofago è rappresentata una grande ruota mossa dall’acqua di un canale che con un paio di altre ruote trasmette in modo non chiarissimo il movimento ad una sega che sembra tagliare un blocco di pietra. Nel IV secolo un letterato tardo romano, Ausonio, nel poema La Mosella descrive a parole in modo un poco generico mulini e macchine per tagliare marmi azionati dall’acqua del fiume Mosella nel nord della Germania all’incirca dove è situata l’antica città romana di Treviri. Ora dal punto di vista pratico è plausibile che in tempi così lontani una sega di ferro ben temprato, anche se non paragonabile all’acciaio moderno, possa tagliare pietre teneri quali il marmo travertino, quello che ricopriva molti monumenti romani, o pietre pomici o pietre di talco quindi si deve ammettere che il principio di funzionamento di una sega ad acqua era conosciuto già in età tardo romana. Tuttavia nell’alto Medioevo non erano noti i dati archeologici di Hierapolis, anzi forse non si sapeva nemmeno dell’esistenza di quella città in cui si parlava solo greco, così come non doveva essere molto noto il letterato poeta Ausonio. Però nel 1245 Villard de Honnecurt descrive molto correttamente per la prima volta una segheria ad acqua per tagliare legni che egli vide quasi di certo nel grande utilizzo che se ne fece qualche tempo prima per realizzare le armature e i ponteggi per la costruzione delle grandiose cattedrali gotiche francesi. La precisione della descrizione suggerisce a chi scrive che anche in questo caso si tratti di una riscoperta o meglio reinvenzione autonoma da parte degli artigiani del tempo che dovettero escogitare un nuovo meccanismo. (foto-10)
Un tale meccanismo risulta dall’abbinamento speciale tra una manovella ed una biella. La manovella, che di norma serve a far ruotare a mano un sistema quale ad esempio un cilindro o rullo di legno su cui si arrotola la fune di un pozzo quando si attinge acqua, è usata al contrario nel senso che in tal caso la manovella non è l’agente principale che induce il movimento ma è un componente che subisce il movimento rotatorio. Nella manovella si inserisce poi uno dei fori o anelli della biella che è un’asta dotata per l’appunto di due fori posti alle sue estremità. L’altro foro della biella è innestato o accoppiato con un’altra asta che fa parte in modo rigido di un telaio che porta la lama o sega da taglio. Il telaio può muoversi solo in avanti o indietro lungo due guide o binari di legno fissi che nella figura E non sono disegnati per illustrare meglio il principio di funzionamento del meccanismo. La ruota idraulica col suo asse primario facendo ruotare un disco che porta vicino al suo bordo la manovella accoppiata al primo foro della biella costringe l’altra estremità della biella a muoversi in modo lineare alternato, cioè avanti e indietro, realizzando il movimento necessario ai denti della lama per tagliare. Dunque ancora una volta un movimento circolare è stato trasformato in uno rettilineo alternato ma con un meccanismo diverso da quello della pesta e soprattutto molto più controllato. Più grande è il disco con la manovella fissato all’asse primario, maggiore diventa la corsa avanti e indietro della lama. L’uso intermedio di un ingranaggio identico a quello della figura D permette di ottenere un maggior numero di giri della manovella e quindi un maggior numero di movimenti alternati della lama. Inoltre il telaio che sostiene la lama poteva essere disposto non solo in modo orizzontale come nel disegno in oggetto, dove la lama taglia il legno sia in andata che in ritorno, ma per particolari necessità si poteva disporre anche in modo che si muovesse in senso verticale. In tal caso però la lama era in grado di tagliare solo nella fase discendente essendo eccessivo lo sforzo da compiere in salita dovendo vincere anche il peso del telaio. In entrambi i casi comunque il profilo del taglio era assai più diritto e netto di prima essendo guidato da binari fissati. Inizialmente il tronco per fare legna da ardere o manufatti da opera, deposto sopra un carrello, era spinto a mano verso la lama dall’operaio. Solo più tardi sfruttando un ingranaggio complementare simile a quello della figura D fu possibile far avanzare in automatico il tronco dopo ogni corsa intera della lama. Vari scritti del XIV secolo confermano che a parità di tempo la quantità di legnami tagliati con questa macchina era superiore di un fattore dieci rispetto a quella effettuata a mano. E’ facile intuire gli enormi vantaggi a livello economico e sociale che derivarono da questa invenzione poiché nelle città che stavano crescendo oltre alla legna da ardere servivano sempre più manufatti di legno tagliati con buona precisione come assi e tavole da cui ricavare mobili di casa e travi di varie dimensioni e lunghezze usate in molti tipi di costruzione edili, minerarie e marinare quale la realizzazione di navi di dimensioni sempre crescenti. E’ inutile dire poi delle enormi fatiche fisiche risparmiate dagli artigiani addetti al taglio dei tronchi. Prima di terminare questo argomento è importante sottolineare che l’ideazione dell’accoppiamento tra la manovella e la biella in apparenza semplice fu una conquista rivoluzionaria. Essa infatti fu sfruttata in seguito in tanti altri meccanismi non legati all’economia agricola come ad esempio nella fabbricazione delle prime pompe e negli ultimi anni del 1700, utilizzata al contrario grazie alla lavorazione dei metalli sempre più perfezionata, permise la nascita della locomotiva a vapore. Infatti un getto di gas ad alta pressione iniettato alternativamente davanti e dietro ad uno stantuffo che scorre all’interno di un cilindro in modo rettilineo alternato e collegato ad una biella a sua volta connessa ad una manovella riuscì ad imprimere un movimento rotatorio ad una ruota e quindi a far spostare per la prima volta un carro “da solo” ovvero senza l’ausilio della forza dell’uomo o degli animali.
L’ultima macchina che si vuole illustrare è il maglio che automatizza in buona misura la lavorazione del ferro caldo. Non si hanno descrizioni letterarie o grafiche di questo meccanismo in epoca romana e nemmeno in quella tardo antica. Risulta però presente attorno al 1100 in località dove si estraevano minerali di ferro e dove il metallo, estratto in forma di pani per cottura e fusione delle rocce in un forno, doveva poi essere modellato a mano a colpi di martello con grandiose fatiche. In Italia settentrionale una zona dove la ricchezza del minerale si abbinava all’abbondanza di acqua nei fiumi o torrenti era il distretto bresciano dove non a caso già in epoca romana le popolazioni locali, quelle che ci hanno lasciato le famose incisioni rupestri camune, estraevano anche ferro per gli eserciti di Roma.
Il principio di funzionamento del maglio si ispira sia a quello della pesta che a quello del follo ma con una modifica importante vale a dire l’introduzione di una leva vera e propria. In una leva che ruota attorno a un punto fisso ad un movimento del braccio più corto corrisponde un movimento più ampio del braccio più lungo il che permette di sollevare un peso più in alto e di lasciarlo cadere con più forza. Basta avere dunque una spinta che abbassa il braccio corto della leva per alzare il braccio lungo e lasciarlo poi cadere come descritto in figura F (foto-11) . Tuttavia qui sono in gioco pesi e forze decisamente maggiori che creano problemi tecnici non facili da risolvere con componenti fatti quasi solo di legno. Il martello della pesta o del follo infatti che è di legno pesa solo al più 5 o 6 chilogrammi mentre quello del maglio, che è di ferro, deve pesare almeno 25 o 30 chili e nei magli più grandi anche di più. Inoltre l’urto violento tra il ferro da lavorare, anche se malleabile perché caldo, poggiato su un’incudine e il ferro del martello che cade crea contraccolpi nella leva che a quel tempo non poteva che essere un tronco di albero facendolo letteralmente sfaldare. Anche il punto di contatto tra il rostro o dente fissato al disco fatto ruotare dall’asse primario della ruota idraulica e l’estremità del braccio corto della leva è estremamente critico poiché in questo punto si esprime una forza che in un paio di secondi deve sollevare un peso complessivo attorno ai 100 chili o più tendendo a distruggere l’estremità stessa della leva. I problemi furono risolti dopo alcuni decenni di prove e di riprove sperimentali che si conclusero inserendo l’asse di rotazione della leva in un pesante supporto di pietra, fasciando il tronco con degli anelli di metallo per rafforzarlo, proteggendo l’estremità del braccio corto con una sorta di cappuccio di ferro, assegnando ai denti un profilo smussato come in figura e ricoprendoli con una lamina di ferro in modo da smorzare questo grande impatto. Ciò che si ottenne alla fine fu un enorme martello meccanizzato innestato all’estremità di un tronco che fu chiamato in latino non a caso “malleum” cioè martello ma che fu tradotto nel tempo col termine maglio. Vale la pena di sottolineare per inciso che la smussatura e la ricopertura in lamina di ferro dei denti fissati all’asse primario rappresentano anche un esempio primitivo ma funzionante di quel dispositivo fondamentale che oggi chiamiamo “camma” che permette, con l’apertura e la chiusura alternata delle valvole di aspirazione e di scarico, il funzionamento di un motore a benzina o a gasolio e di altri tipi di motore. La diffusione del maglio non fu veloce soprattutto perché agli inizi esso fu usato per forgiare vari tipi di armi da taglio per cui i governi centrali che ne erano i veri proprietari mantennero segrete queste conoscenze e poi perché la sua realizzazione aveva un grande costo. Ci volle del tempo affinchè questa macchina fosse utilizzata per scopi civili come nella produzione dei numerosi attrezzi in ferro indispensabili nella vita dei campi e in varie attività artigiane. Nei secoli successivi essa conobbe molti perfezionamenti tra cui vale la pena di ricordare la possibilità di regolare la quantità d’acqua da far cadere variando la velocità di rotazione, e quindi il numero dei colpi di martello, stando all’interno dell’edificio e la sostituzione del mantice di pelle di animale che, soffiando su un fuoco, teneva caldo il ferro da lavorare con un dispositivo che, sfruttando ancora l’acqua in caduta, per risucchio creava un soffio di aria che alimentava in automatico questo fuoco. Per inciso quando ancora si usava il mantice è utile rammentare che erano spesso i ragazzini a muovere continuamente con le mani e a volte con i piedi per mezzo di un telaio apposito le due tavole di legno tra cui era inserita la sacca di pelle.
Concludendo questa lunga indagine e descrizione appare evidente che l’invenzione o la reinvenzione e soprattutto l’applicazione assai diffusa di queste macchine quali, riassumendo, la pesta, il follo, il torchio, il mulino, la sega e il maglio azionati dall’acqua rappresentarono nel Medioevo il massimo delle conoscenze tecniche del tempo e costituirono una vera e propria rivoluzione tecnologica rispetto al passato poiché la forza dell’uomo o degli animali fu sostituita dalla forza dell’acqua in caduta libera vale a dire da una nuova forma di energia nella pratica illimitata e gratuita. I vantaggi economici e sociali che ne derivarono durarono per vari secoli fino all’inizio della prima rivoluzione industriale quando questi stessi meccanismi con nuove forme di energia, dapprima col vapore e poi con l’elettricità, furono ulteriormente migliorati non nel loro principio logico di funzionamento ma nella loro applicazione assai più perfezionata e più potente ossia capace di produrre a parità di tempo molti più beni, per l’appunto come si dice in quantità industriale, a vantaggio di un numero sempre maggiore di persone di ogni ceto sociale. Si illustrerà ora come queste antiche innovazioni sono penetrate anche in Valle Brembana a partire da tempi assai precoci.
Si è già visto che un follo è presente nel 1023 presso Dalmine sulle rive del Brembo che non è propriamente la Valle Brembana anche se è l’acqua dello stesso fiume a fornire l’energia. Il 10 maggio 1308 risulta invece che i fratelli Pellegrino e Pietrobono fu Giovanni Bonetti di S. Pellegrino, su loro richiesta, dichiarano di ricevere in affitto dalle mani di Blino fu Giovanni (senza cognome) di Dossena console del comune di Piazzo gli elementi che compongono un edificio di mulino che sono “duas molas, unam arborem, unam archetam parvam, unam pestam et unam rottam ipsius molendini (due mole o macine, un albero ossia asse, un arco piccolo di legno, una pesta e una ruota dello stesso mulino)” ed altri beni e attrezzi pertinenti all’uso del mulino stesso. Su tutto ciò il console di Piazzo garantisce i diritti di esercizio a favore dei due fratelli. Il rogito è redatto “in luogo di Piazzo in Valle Predaria sopra e alla riva della stessa valle verso ovest del predetto mulino giacente sul lato di S. Gallo” dal che si deduce l’esistenza di una pesta e di un mulino pubblici allo sbocco della valle Predaria, che scende dal paesino di S. Croce, nel Brembo sul suo lato sinistro il cui territorio era considerato appartenente al comune di S. Gallo. Piazzo si riferisce ovviamente a Piazzo Basso sulla sinistra del Brembo oggi parte del comune di S. Pellegrino. Da notare che anche oggi questa località è conosciuta con lo stesso nome di Predaria. Giacchè si sta parlando di S. Pellegrino vale la pena di citare che in pratica quasi negli stessi anni sul lato opposto del Brembo esisteva un altro mulino. In un giorno imprecisato del marzo 1337 infatti risulta che già da qualche tempo esso era di proprietà di certo Giovanni di Pellegrino Della Valle e che era situato “in vicinia o contrada di S. Pellegrino nel luogo dove si dice alla valle” ed era azionato dall’acqua della valle Borlezza caratterizzata da varie cascate [3]. Il 2 gennaio 1312 risulta che la signora Agnese vedova del fu Giovanni (senza cognome) di Piazza Martina contrada di Poscante accetta la suddivisione di alcuni immobili dietro compenso a favore di Bonomo fu mastro Sozzo Pisis di Stabello. La cessione è formalizzata nel luogo di Poscante presso il mulino dei figli di Bono fu Guarino Zanchi di Poscante che da altri atti di poco successivi risulta situato presso la cospicua cascata che si incontra ancora oggi salendo in auto poco prima del centro del paese [4] . Il 16 giugno 1337 da un abitante di Sambusita dal nome non ben leggibile viene affittato un mulino a Marchetto (senza cognome) di Stabello e l’opificio si trova in territorio di Rigosa “vicinia dela Costa (contrada di Costa Serina)” e confina a est e a nord con la valle che corrisponde ancora oggi alla valle detta dei Mulini e contribuisce a formare il ramo di Selvino del fiume Serina [5]. Il 15 aprile 1339 i fratelli Guidino, Guglielmo e Pace fu Maffeo Maffeis di Zogno vendono una terra prativa con un mulino sopra con diritti di acqua e di acquedotti per lire 32 imperiali a Trusardo fu Giovanni fu altro Giovanni Maffeis pure di Zogno posta “ibi ubi dicitur in Ambria in contrata de Spino vicinia de Zonio (nel luogo dove si dice in Ambria contrada di Spino a sua volta contrada di Zogno)” che confina a est con quelli di Spino, a sud con “Aqua Ambrie (l’acqua o fiume Ambria cioè Serina)”, a ovest con il Brembo, a nord quelli di Spino contrada di Zogno. Dal che si deduce che l’opificio era situato sulla sinistra del Brembo tra il Brembo e il fiume Serina in territorio di Spino che in quegli anni per essere costituito da meno di 12 “fuochi” ossia famiglie era stato aggregato a Zogno [6]. Ma il 6 dicembre del 1339 lo stesso Trusardo Maffeis di Zogno risulta proprietario di un mulino a due ruote e di un follo con diritti di acqua e di acquedotti posti nella contrada di “Tiollo Exteriore (Tiolo Fuori)” del comune di Zogno affittati ad un abitante di Tiolo, dal nome assai smarrito, e per tale motivo viene pagato dopo alcuni anni di esercizio da parte dell’affittuario. Bisogna notare a questo punto che Tiolo Fuori è l’antico nome del villaggio di Ambria posto solo sulla riva destra del Brembo contrapposto a Tiolo Dentro che è la contrada che ancora oggi porta tale nome, a valle della precedente, e che è più vicina al centro di Zogno [7]. Questi ultimi due opifici risultano ancora presenti ed ampliati, benchè mutati di proprietà, il 28 febbraio 1348. In questa data infatti si ha che Raimondo fu Marco fu Barone Gariboldi di Zogno ma abitante a Bergamo nel quartiere di S. Alessandro della Croce avendo affittato qualche anno addietro a Zogno (nome di persona) fu Teutaldo Zucchi di Tiolo del detto comune tre parti su quattro di una casa di più locali e la metà di due ruote “andanti” cioè funzionanti ivi contenute e di un follo da panni e di una “rasige ab aqua (segheria ad acqua)” posta superiormente cioè a monte, decide di rinnovare l’affitto per altri anni alla stessa persona. Il complesso dei tre opifici cioè mulino, follo e segheria è posto “in contrata de Tiollo Exteriore (Tiolo Fuori)” e confina a est con Lorenzo fu Teutaldo Zucchi, a sud col fiume Brembo, a ovest col comune di Zogno e a nord con la strada del comune di Bergamo dal che si deduce che gli opifici erano situati sulla riva destra del Brembo poco dopo il punto in cui il corso del fiume presso Ambria piega improvvisamente dalla direzione nord-sud verso quella est-ovest all’incirca, per avere un riferimento attuale, poco sotto la ex stazione ferroviaria di Ambria. Il valore annuale dell’affitto che si riferiva anche a due terre prative vicine al complesso consisteva in 5 soldi e 6 denari imperiali più un cappone “bello e buono” per ciascun opificio [8]. Il 31 marzo 1353 i fratelli già conosciuti Guidino, Guglielmo e Pace fu Maffeo Maffeis di Zogno, già possessori di mulini ad Ambria, stabiliscono le condizioni per suddividere la proprietà di due mulini e di una “rasige ab aqua (segheria ad acqua)” e della seriola annessa con i relativi diritti di acqua che essi hanno in comune con i nipoti Pellegrino e Andrea figli diventati maggiorenni di un loro fratello, Giovanni, morto da tempo. La suddivisione è fatta sulla carta ma non nella pratica in quanto questi opifici devono essere gestiti in affitto ancora per 8 anni dai fratelli Guarischino e Bono di Martino fu Bono Zanchi di Poscante ma abitanti ad Endenna. Gli opifici risultano collocati “in loco de Zonio ibi ubi dicitur in salegio dominorum Zucchorum et Mafeyorum (nel luogo di Zogno dove si dice nel saliceto dei signori Zucchi e Maffeis)” che corrisponde alla piazza dove oggi si trova il monumento ai caduti della prima guerra mondiale [9] . È interessante segnalare anche un rogito del 5 giugno 1365 che dimostra che i mulini erano diffusi non solo lungo l’asse principale della Valle Brembana, ossia sul Brembo, ma anche in varie valli laterali. In tale data infatti Pietro fu Mazzocco Carminati e Pietro fu Giovanni Carminati ambedue di Brembilla insieme vendono 196 “passi”, da intendersi come metri, di legni o tronchi a Vincenzo fu Alberto Agazzi di Bergamo, a Gasparino fu Guidobono (senza cognome) di Lallio e ad Antonio fu Guarino fu Pietro Maffeis di Zogno tutti abitanti a Bergamo per la notevole somma di lire 450,16 imperiali in quanto in questa spesa è compreso anche il lavoro di trasporto e consegna di tali legni fatti flottare lungo il Brembo a casa dei tre destinatari. Al momento della vendita questi legnami risultano accatastati “in fondo aque Brembille apud molendina quae appellantur molendina illorum de Damienis (alla fine dell’acqua o torrente Brembilla presso i mulini che sono detti i mulini di quelli dei Damiani)”. Per capire dove sono collocati tali edifici basta leggere un altro rogito di circa 70 anni dopo, ossia di tre generazioni successive degli stessi proprietari, per l’esattezza del 17 febbraio 1432 in cui Pietro detto Pieretto fu Parto fu Alberto Damiani detto Gallone vende per lire 300 imperiali a Damiano fu Pietro detto Cassio fu lo stesso Alberto Damiani detto Gallone una casa contenente un mulino funzionante e due mole o macine per costruire un altro edificio da mulino contiguo al precedente con i diritti di seriola o acquedotto il tutto posto in territorio di Brembilla “ibi ubi dicitur ad molendina illorum Galloni (nel luogo dove si dice ai mulini di quelli di Gallone)” che confina verso sud col torrente Brembilla. Alla vendita sono abbinate due terre vicine e poste sopra in contrada “Carpenito ibi ubi dicitur ad planam” ossia a Carnito dove oggi si dice alla Piana dei Ginepri che non a caso si trova a est e sopra l’attuale località ancora denominata “i Mulini di Galone” [10]. Per maggiore chiarezza questa località si trova poco a monte del ponticello sopra il torrente Brembilla poco prima che esso sbocchi nel Brembo vicino ai Ponti di Sedrina.
I documenti inediti sin qui illustrati descrivono peste, mulini, folli e segherie azionati dall’acqua nella media Valle Brembana in tempi medioevali. Non si sono ritrovati riscontri per i torchi e i magli. Per la verità nella prima metà del XV secolo è segnalato un torchio nel centro di Zogno, uno a Endenna, uno in contrada Lallio e un altro a Piazza Martina alla località Corna nell’antico comune di Poscante ed uno infine nel centro di Stabello. Ma questi edifici per la loro posizione non potevano essere azionati da un canale di acqua. Essi erano manuali e usati per scopi famigliari per macinare quantità di prodotti comunque limitate. Il primo torchio ad acqua è segnalato ad Ambria solo a cavallo tra il XVI e il XVII secolo [11]. Per lo stesso motivo una fucina da maniscalco situata vicino alla piazza di Zogno, l’attuale piazza Garibaldi, e segnalata il primo febbraio 1453 e il 19 gennaio 1457 [12] non poteva essere azionata dall’acqua quindi non poteva essere dotata di un maglio. Ciò significa che la lavorazione del ferro caldo per ottenere ad esempio vari attrezzi da lavoro per i contadini o per alcuni artigiani era manuale ed era limitata a modeste quantità. E’ fondamentale dunque distinguere nei documenti antichi quando si parla di una fucina sapere se essa era dotata di un canale o seriola per creare il salto d’acqua oppure no. Il primo maglio ad acqua a Zogno non a caso è segnalato solo nel 1581, era di proprietà di Giovan Giacomo Maffeis ed era situato al posto della ex cartiera Brembati vicino al monumento ai caduti della prima guerra mondiale cioè presso il Brembo [13].
Non ci sono molti riscontri di queste macchine azionate dall’acqua in alta Valle Brembana non perché non esistessero in tempi molto antichi ma perché nel complesso sono piuttosto scarsi i documenti d’archivio che si sono conservati. Qualche traccia importante che ci conferma che questi edifici esistevano abbastanza ben distribuiti anche in alta valle comunque è stata individuata esaminando i dati di vari paesi. Ad esempio il 30 marzo 1331 risulta che il signor Uniano detto Grasso fu Costante Mascheroni dell’Olmo, che dichiara di seguire la legge longobarda, affitta per dodici anni prossimi venturi, scadenti alla festa di S. Martino, a Giacomo detto Pirolla fu Pasino Mascheroni dell’Olmo suo parente la metà di una casa con solaio e lobbia, di due terre prative e campive vicine e di una casetta o fienile poste in Olmo i cui confinanti sono su tre lati dei Mascheroni e su l’ultimo lato un Ottoboni. Inoltre Uniano affitta per intero la ruota di un mulino e di una pesta situati sempre ad Olmo con vari attrezzi pertinenti ai due opifici e la terza parte di acqua e di acquedotti che vanno allo stesso mulino e alla stessa pesta e verso altri mulini degli eredi di Pietro fu figlio dello stesso Uniano cioè suoi nipoti. Si precisa che il mulino e la pesta confinano a sud e a ovest con “l’acqua del fiume Olmo” mentre gli altri lati sono ancora dei Mascheroni e che l’affitto annuale in totale è di lire 6 imperiali più un cappone più la decima parte del macinato di ambedue gli opifici da pagarsi però all’inizio di ogni anno. Il contratto di affitto è redatto ad Olmo nella casa degli eredi del fu Costante Mascheroni dell’Olmo [14]. Da notare che Uniano, essendo proprietario di una vasta casa con una sala per gli ospiti anche ad Endenna, risulta un antenato del famoso capo guelfo, Merino Mascheroni dell’Olmo, ferito e catturato dai Ghibellini a Endenna e imprigionato nella rocca di Bergamo dove morì nel 1383 per le ferite riportate [15]. L’8 settembre 1331 i fratelli Teutaldo e Pietro fu Giovanni Vincenzi di Zogno affittano in modo perpetuo a Giovanni fu Mayse fu Bonetto Siboldi di Cambrembo e a suo figlio Mayse una casa, un fienile e varie terre situate nel territorio di Cambrembo tra cui una prativa e campiva confina a est con “aque flumine Leffe (l’acqua del fiume Leffe cioè di Valleve)” mentre a sud con una via comunale e con “seriolla molendini de Cambrembo (la seriola del mulino di Cambrembo)”. Il tutto per lire 10 imperiali all’anno più un agnello bello e buono da pagarsi alla festa di S. Martino. L’atto è formalizzato a Branzi “de Valle Fondra” in casa di abitazione di uno Scanzi [16]. Il 19 novembre 1333 i fratelli Oprando e Martino Mascheroni dell’Olmo insieme a vari altri fratelli loro cugini e loro nipoti tutti Mascheroni dell’Olmo di Olmo rilasciano ricevuta di pagamento per un valore di lire 6 imperiali al notaio stesso che rappresenta uno Zambelli e un Della Chiesa consoli del comune di Endenna per una precedente transazione intercorsa tra questi Mascheroni e il comune di Endenna. Il pagamento è redatto in Olmo “alla fucina di Costanzo detto Bana fu Taddeo Maffeis di Zogno[17]. Ora per questa fucina non si precisa se era dotata di una seriola o acquedotto ma è plausibile pensarlo essendo il Brembo a Olmo piuttosto abbondante di acqua e caratterizzato da numerose rapide e cascatelle. La stessa considerazione va fatta per il rogito dell’11 maggio 1342 dove i fratelli Recuperato e Antolino fu mastro Montenario di Burnigro vendono una terra prativa ed arativa ivi posta ai fratelli Guglielmo e Betino fu Giovanni Ridolfi di Fondra di Bordogna per lire 18 imperiali e l’atto è steso “in loco de Burnigro sotto il portico della fucina di mastro Recuperato de Burnigro[18]. Il toponimo assai antico “Burnigro” corrisponde al più recente termine Bernigolo che individuava una località sulla riva del Brembo del ramo di Branzi poco a monte dell’attuale laghetto artificiale di Moio, presso la centrale idroelettrica di Bordogna, rimasto nella tradizione orale a tal punto che gli anziani del luogo chiamano questo laghetto anche col nome di Lago del Bernigolo. Inoltre l’8 gennaio 1343 i fratelli Lanfranco, Marchisio, Domenico e Guarisco figli di Uniano vendono per lire otto imperiali a Stefano fu Guidotto fu Cespedoso, tutti senza cognome e tutti di Piazza Brembana, la dodicesima parte di due mole e di una ruota di un mulino andante cioè funzionante, la cui divisione però è ancora da farsi, con i diritti di acqua e acquedotti che si trova su una terra posta in territorio di Piazza Brembana “ibi ubi dicitur in Ysella et in Stinctis (dove si dice nell’Isola e negli Stinctis (?)” che confina a est col “fiume di Lenna” cioè col Brembo, a sud col “fiume di Lenna”, a ovest con la seriola del detto mulino, a nord in parte col “fiume di Lenna”. La vendita è redatta in Piazza Brembana alla casa degli eredi di Uniano [19]. Infine il 7 gennaio 1349 Guarisco Panigoni di Piazza Brembana rilascia ricevuta di pagamento del valore di soldi 40 imperiali come fitto annuale scaduto a S. Martino di un affitto perpetuo a Pasino Paganoni di “sopra Fondra” relativamente alla metà di un mulino con due mole (macine) e due ruote posto in Fondra. Il pagamento è redatto sempre in Piazza Brembana sotto il portico degli eredi di Guarisco detto Malicco [20].
Facendo un salto in avanti di qualche decennio si scoprono maggiori dettagli. Ad esempio nel rogito del 30 giugno 1428 risulta che avendo Giovannino detto Baytolla fu Producio fu Guidotto (senza cognome) di Fondra venduto tempo addietro a Giacomo fu Balsarino Begnis e a Fadino fu Giuseppe Begnis, ambedue della Cultura, la terza parte di cinque parti di nove parti “totius foxine de Fondra (di tutta la fucina di Fondra)” per una divisione stabilita ma ancora da farsi e nella stessa misura tutti gli utensili pertinenti ad essa e tutti i boschi e tutte le legne già tagliate per essa e la stessa parte dei diritti di acqua ed acquedotti “per quibus ipsa foxina curit (per i quali la stessa fucina corre cioè funziona)” con altri diritti e servitù ad essa collegati, ora lo stesso Giacomo fu Balsarino Begnis rivende a sua volta a Giovanni fu Antonio Borella detto Bordogna di Fondra la metà di queste tre parti per un valore di lire 12,10 imperiali. Il rogito è steso a Valnegra in Valle Brembana episcopato di Bergamo sotto un certo portico di Guarisco detto Mazza fu Pedrone Begnis della Cultura. E’ importante osservare che nonostante la nuova e parziale vendita la fucina con tutto il suo corredo di attrezzi, beni e risorse rimase divisa solo sulla carta ma unita nella pratica essendo gestita da un apposito mastro ferraio. Il fatto che l’intera fucina ad acqua fosse di proprietà di molte persone significa che in tal modo non solo si dividevano i guadagni ma soprattutto si dividevano i rischi di gestione diminuendo il danno del singolo proprietario nel caso di rotture di componenti del complesso macchinario o di incendio o di inondazione dell’opificio da parte del Brembo. Questi proprietari insomma si configurano a tutti gli effetti come degli azionisti veri e propri che si assicurano contro imprevisti grazie al loro numero di ben 12 soci. Dal contesto del documento è evidente che questo maglio che doveva essere cospicuo esisteva a Fondra già prima del 1428 e che ragionevolmente poteva risalire al periodo a cavallo tra il 1300 e il 1400 [21]. Un altro documento assai importante è quello del 18 dicembre 1430 in cui Tonolo fu Crotto Mascheroni dell’Olmo di Olmo vende per lire 249 imperiali ai fratelli Zanino, Alessandro e Tonolo fu Antoniolo fu Guarisco Calegari di Valnegra la metà di un edificio, per il quale i Calegari pagavano un fitto annuale perpetuo di lire 6,10 imperiali più un cappone, contenente un mulino, una pesta e tutti gli attrezzi ed i finimenti ad essi relativi e con i diritti di acqua e di acquedotti pertinenti il tutto posto nel territorio di Valnegra nel luogo dove si dice “nel prato della fucina” che confina a est con i fratelli Amadeo e Viviano eredi del fu Amerigo Zaffardi e in parte col Brembo, a sud col Brembo e in parte con la valle detta Negra, a ovest la predetta valle e in parte la via comunale, a nord la via comunale e in parte i fratelli Zaffardi. Da notare che la valle detta Negra è la cosiddetta Valnegra che scende dalla cima del monte Torcole e che nel corso dei secoli ha finito per dare il nome al paese scorrendogli vicino. Oggi questo luogo corrisponde al punto in cui all’incirca si trova la diga che forma il laghetto artificiale di Moio ma in fondo al lago. Una caratteristica importante di questa vendita è il fatto che si precisa che l’affitto perpetuo attivo in precedenza era iniziato alle stesse condizioni il primo marzo 1390 tra il fu Crotto Mascheroni e gli antenati sia dei Calegari che degli Zaffardi come risulta dal rogito del notaio Antonio fu Girardo Sertori di Cugno di cui però non ci è giunto alcun atto. Inoltre gli antenati Zaffardi avevano pagato dal 1390 un affitto identico per l’altra metà dell’edificio dove vi era invece una fucina ad acqua e che avevano riscattato prima dei Calegari. Dopo questa transazione gli eredi Zaffardi e Calegari, tutti di Valnegra, si accorderanno tra di loro per ingrandire la chiusa sul fiume Brembo per utilizzare più acqua sia per i mulini che per il maglio come appare dall’atto del 6 settembre 1434 [22]. Poco a valle della diga che forma il laghetto del Moio vi era in antico un altro maglio abbastanza importante come risulta dall’atto del 3 gennaio 1430 in cui Giovanni fu Bonfado Begnis detto Schena della Cultura di Valnegra vende a suo fratello Antoniolo la metà di varie terre prative e campive con la metà di una casa poste in territorio di Lenna alla località Cultura e soprattutto la metà di due parti su otto parti, la cui divisione però è da farsi, “cuiusdam foxine cum suis juribus pertinentijs jacentis in teritorio de Valenigra ibi ubi dicitur ad foxinam pontis Giarelli (di una certa fucina con i relativi diritti pertinenti posta in territorio di Valnegra nel luogo dove si dice alla fucina del ponte Giarello)” per un totale di lire 50 imperiali [23]. Il ponte “Giarello” oggi corrisponde al ponte Chiarello che dal territorio di Lenna conduce alla contrada Cantone di S. Francesco e questa, al momento, è la sua più antica citazione. Anche in questo caso dal contesto del documento è evidente che la fucina e il suo maglio esistevano già da vario tempo. Infine è interessante segnalare il 13 gennaio 1429 l’esistenza in territorio di Piazza Brembana di una pesta usata sia per macinare granaglie che per trattare fibre vegetali. In tale data infatti Sonabello fu Andreolo Donati insieme a Donato fu Zano fu lo stesso Andreolo Donati, si tratta dunque di zio e nipote, vendono a Lanzarotto Donati detto Buffone tutti di Piazza Brembana la metà, la cui divisione però è da effettuarsi, “cuiusdam pestis seu follo ad pistandum panichum et linum et alia facendum jacente in teritorio de Laplazza ibi ubi dicitur in stinctis seu in Ysella (di una certa pesta ossia follo per pestare panìco (tipo di cereale) e lino (fibra) e per fare anche altre cose posto in territorio di Piazza Brembana dove si dice negli Stincti (?) ossia nell’Isola)” che confina da tre lati col fiume Brembo, il tutto per lire 25 imperiali [24]. E’ evidente che questa pesta e follo costituisce un’evoluzione del mulino citato all’atto dell’8 gennaio 1343 situato nella piana di Lenna dove si uniscono i due rami principali del Brembo. (foto-12)
L’esistenza accertata alla fine del XIV secolo di vari magli sul ramo del Brembo di Branzi è giustificata dalla presenza di importanti giacimenti di minerali ferrosi nei monti attorno a Carona e a Cambrembo dove pure esistevano importanti forni per cuocere e sciogliere il minerale. Poiché l’estrazione del ferro dalla matrice rocciosa richiedeva un’alta temperatura che si raggiungeva bruciando carbone ottenuto dalla legna oppure la legna stessa è impensabile che nello stesso periodo non ci fossero segherie ad acqua lungo i vari rami del Brembo che servivano a ridurre a dimensioni gestibili la grande quantità di tronchi tagliati indispensabili ad alimentare il fuoco nei forni. Quindi la scarsità di riferimenti molto antichi a segherie ad acqua in alta valle dipende solo dalla scarsità dei documenti che sono giunti sino a noi. Ad oggi il riferimento più antico è quello del 16 settembre 1445 in cui i fratelli Tonolo, Donato e Barone fu Giovanni fu Ardizzone Cattaneo di Valleve ma originari della Valtellina si dividono e si scambiano alcuni loro beni immobili con un cugino paterno di nome Pellegrino tra i quali c’è un follo a Foppolo ed una fucina con seriola ed una segheria poste a Valleve [25]. Alla scarsità di documenti archivistici però negli ultimi decenni si sono contrapposti alcuni ritrovamenti archeologici che confermano la diffusa presenza di queste attività anche in alta valle. Ad esempio nel marzo 1979 in fondo al laghetto di Carona, svuotato per motivi di manutenzione, fu ritrovato un forno fusorio per i minerali ferrosi all’interno di un piccolo edificio semi crollato risalente al tardo Medioevo o agli inizi del Rinascimento. Recuperato per iniziativa di Onorato Pesenti, Gianfranco Pesenti, Franco Carminati Prida, dell’autore del presente scritto, di Renato Amaglio e di Lorenzo Sonzogni questo forno fu collocato nel giardino del Museo della Valle di Zogno. Nel luglio del 1987 a causa della eccezionale piena del fiume Brembo è stata ritrovata a Mezzoldo una pesta binaria, cioè a due cavità, in serizzo ghiandone rosso molto antica mentre altre due, sempre binarie e in serizzo ghiandone, sono state trovate nella contrada Sottocorna di Valleve: la prima di color rosso molto antica è stata collocata sul sagrato della chiesetta di Cambrembo, la seconda grigio-verde più recente è finita a Foppolo [26]. (foto-13) Come conseguenza di questi eventi di piogge e piena eccezionale poco dopo chi scrive ha potuto acquisire una pesta singola in serizzo ghiandone color violaceo pure assai antica da un mulino semi crollato in territorio di Cusio salvandola da sicura distruzione e ponendola nel giardino della propria casa. Tutte queste peste sono state ricavate da massi rocciosi, trascinati dalle piene del Brembo, grazie ad abili scalpellini locali. Infine vale la pena di ricordare il modello didattico ma molto interessante di una segheria ad acqua, come parte del museo etnografico di Valtorta, ricostruita sulla base di alcuni resti di una segheria dell’alta Valle Brembana. Tuttavia la presenza in questi resti di vari componenti in metallo forgiati con elevata precisione, quasi come se fossero stampati, fanno risalire la struttura originaria a non prima della fine del XIX secolo.

BIBLIOGRAFIA

1- Fonti per lo Studio del Territorio Bergamasco, n. 12: Le Pergamene degli Archivi di Bergamo, anni 1002-1058, Ed. Provincia Bergamo, Assessorato alla Cultura, Centro Documentazione Beni Culturali, Bergamo 1995 (a cura di M. R. Cortesi e A. Pratesi). Doc. n. 65, pag. 117.

2- Per approfondimenti dello stesso autore su questo ritrovamento vedi: Quaderni Brembani n. 10, anno 2012: Le più antiche sculture della Valle Brembana, pag. 60 e ss.

3- Archivio di Stato di Bergamo (= ASBG). Fondo Notarile (= FN). Notaio Panizzoli Guarisco fu Bonfadino di Zogno, cartella (= c.) 4, vol. 1307-1312, atto 10/05/1308 pag. 18; vol. 1337-1339, atto xx/03/1337 pag. 61.

4- ASBG. FN. Panizzoli Guarisco, c. 4, vol. 1307-1312, atti 02/01/1312 pag. 156, 05/04/1312 pag. 178.

5- ASBG. FN. Panizzoli Guarisco, c. 4, vol. 1337-1339, atto 16/06/1337 pag. 108.

6- ASBG. FN. Panizzoli Guarisco, c. 4, vol. 1337-1339, atto 15/04/1339 pag. 434.

7 - ASBG. FN. Panizzoli Guarisco, c. 4, vol. 1337-1339, atto 06/12/1339 pag. 516.

8 - ASBG. FN. Panizzoli Pietro fu Guarisco di Zogno, c. 45, vol. 1348-1349, atto 28/02/1348 pag. 56; vol. 1351-1352, atto 06/03/1352 pag. 243.

9 - ASBG. FN. Panizzoli Pietro, c. 46, vol. 1353-1355, atto 31/03/1353 pag. 85.

10 - ASBG. FN. Panizzoli Pietro, c. 47, vol. 1363-1365, atto 05/06/1365 pag. 262. Damiani Bonomo fu Lanfranco di Sedrina, c. 201, vol. 1431-1433, atto 17/02/1432 pag. 117. Per una storia più recente dei mulini di Galone vedi anche dello stesso autore in Quaderni Brembani n. 12, anno 2014: Un antico marchio di fabbrica veneto, pag. 122 e ss.

11 - Pesenti Giuseppe: Le rogge di Zogno, Ed. Archivio Storico S. Lorenzo, Zogno 1997, pag. 31. In questa pubblicazione l’autore ha già illustrato alcuni dei temi trattati in questa sede ma solo limitatamente al territorio di Zogno e ad epoche successive al 1450 circa.

12 - ASBG. FN. Sonzogni Lanfranco fu Teutaldo di Zogno, c. 392, vol. 1453-1455, atto 01/02/1453 f. 10r. Sonzogni Alessandrino fu Teutaldo di Zogno, c. 397, vol. 1453-1461, atto 19/01/1457 f. 245v.

13 - Pesenti Giuseppe: Le Rogge di Zogno, pag. 111 e ss. Giovan Giacomo Maffeis sul finire del XVI secolo era proprietario di un maglio con acquedotto anche presso la contrada Cultura di Lenna come risulta dallo studio dello stesso autore in Zogno Notizie, n. 5 ottobre 1999, pag. 23 e ss: Giovan Giacomo Maffeis pioniere dell’imprenditoria zognese.  Queste notizie sono contenute e illustrate anche nel sito Internet : www.pesentigiuseppe.it.

14 - ASBG. FN. Piazza Giovanni fu Bonzino di Piazza Brembana, c. 18/B, vol. 1329-1334, atto 30/03/1331 pag. 209..

15 - ASBG. FN. Piazza Giovanni, c. 18/B, vol. 1329-1334, atti 27/09/1331 pag. 176, 05/11/1331 pag. 169.

16 - ASBG. FN. Piazza Giovanni, c. 18/B, vol. 1329-1334, atto 08/09/1331, pag. 185.

17 - ASBG. FN. Piazza Giovanni, c. 18/B, vol. 1329-1334, atto 19/11/1333, pag. 82.

18 - ASBG. FN. Piazza Giovanni, c. 18/B, vol. 1340-1345, atto 11/05/1342, pag. 55.

19 - ASBG. FN. Piazza Giovanni, c. 18/B, vol. 1340-1345, atto 08/01/1343, pag. 75.

20 - ASBG. FN. Piazza Giovanni, c. 18/B, vol. 1345-1349, atto 07/01/1349, pag. 142.

21 - ASBG. FN. Damiani Bonomo, c. 201, vol. 1426-1429, atto 30/06/1428 pag. 287.

22 - ASBG. FN. Damiani Bonomo, c. 201, vol. 1430-1431, atto 18/12/1430 pag. 343; vol. 1434-1437, atto 06/09/1434 pag. 49.

23 - ASBG. FN. Damiani Bonomo, c. 201, vol. 1426-1429, atto 03/01/1430 pag. 584.

24 - ASBG. FN. Damiani Bonomo, c. 201, vol. 1426-1429, atto 13/01/1429 pag. 452.

25 - ASBG. FN. Donati Simone fu Bonetto di Piazza Brembana, c. 285, vol. 1445-1450, atto 16/09/1445 pag. 12.

26 - Questi ritrovamenti sono stati descritti dall’autore nei numeri di Zogno Notizie dell’anno 1987 e ripresi anche nel sito Internet: www.pesentigiuseppe.it.