Don Giulio Gabanelli,
fede, cultura, umanità di un prete di provincia




Capitolo: Una testimonianza. Un sacerdote speciale

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Nel 1977 circa fui chiamato da don Giulio a collaborare insieme all’amico Franco Carminati - Prida alla pubblicazione del notiziario Zogno Notizie. Il mio compito consisteva nel procurare articoli di ricerche storiche su Zogno e la Valle Brembana in generale e nel correggere le bozze di stampa, preparare e/o correggere le didascalie e l’orientamento delle foto, non di rado inserite capovolte dallo stampatore, mentre l’amico Franco procurava fotografie da lui scattate appositamente, vecchie cartoline di paesaggi o di personaggi zognesi o di occasioni importanti della vita come compleanni, matrimoni, feste religiose o altro e stabiliva una impaginazione di base di questo materiale. E’ durante questo lavoro di correzione di bozze che si svolgeva dopo cena fino a tarda ora, e che si protrasse ininterrottamente sino al dicembre 1999, che mi capitò di assistere personalmente a due episodi molto toccanti che mi svelarono il grado di sacrificio, di abnegazione, di comprensione umana e di carità cristiana di don Giulio applicate nella pratica molto al di là di quanto richiedesse di norma il suo abito di sacerdote.
Era una sera precedente di pochi giorni la festa di S. Lucia dei primi anni “80” del secolo scorso piovosa e piuttosto fredda tanto che cadeva acqua mista a neve. Erano le undici e trenta passate già da un pò. La correzione delle bozze preparatorie era terminata e nello studio di don Giulio stavo discutendo con lui dell’insoddisfacente contenuto delle didascalie relative a due foto che avrebbero dovuto commentare un articolo sulla vicina festa del Natale quando all’improvviso si sentì suonare il campanello della canonica.
Don Giulio si avviò verso la porta ed io lo seguii curioso di vedere chi fosse la persona che suonava alla casa del parroco a quell’ora. Non appena don Giulio sbloccò ed aprì il portoncino di legno, letteralmente rotolò verso il pavimento della sala d’aspetto della canonica, posto tre o quattro gradini più in basso del ponticello che conduce all’ingresso, un giovane intirizzito, tremante ed emaciato quasi esamine che non si reggeva in piedi e che sembrava svenuto.
Io richiusi il portoncino e dissi a don Giulio che bisognava chiamare subito un’ambulanza o la guardia medica ma con uno sguardo don Giulio mi zittì. Rimasi sorpreso perché conoscevo quel giovane che aveva solo alcuni anni meno di me e sapevo da voci che correvano in paese che purtroppo era incappato in una storia di droga che disgraziamente aveva incominciato a interessare da qualche anno anche la Valle Brembana.
Vidi allora don Giulio abbracciare e stringere a sé quel giovane e accarezzarlo insistentemente e parlargli all’orecchio e ripetergli in modo dolce, affettuoso ma persuasivo di stare tranquillo, che era al sicuro e di non temere nulla. Prese poi a massaggiarlo insistentemente sul petto, sulle braccia e sulle gambe e mentre faceva ciò lo guardava intensamente in viso.
Io abbastanza spaventato per quello che stava accadendo, senza sapere cosa fare, guardavo inebetito ora il giovane ora don Giulio e mi accorsi che gli occhi di don Giulio erano diventati lucidi di lacrime. Compresi allora che forse non era la prima volta che questa vicenda accadeva e che don Giulio conosceva e condivideva quella sofferenza. Per fortuna dopo quattro o cinque minuti di intensi massaggi il giovane si riprese e incominciò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile.
Mi accorsi solo allora che effettivamente quel ragazzo era vestito in modo assolutamente inadeguato a combattere il freddo di quella notte e che il suo stato poteva dipendere non solo dalla eventuale droga assorbita ma anche dal gran freddo patito. Poco dopo aiutai don Giulio a sostenere il giovane, a trasferirlo in cucina e a farlo sedere su una poltroncina lì presente vicina ad un calorifero. Don Giulio senza svegliare sua sorella, che faceva le funzioni di perpetua, recuperò in qualche modo una pesante coperta che sistemò addosso al giovane dopo di chè preparò un tè molto caldo e glielo fece bere. Dopo altri dieci minuti il giovane sembrava star meglio, il suo viso non era più così emaciato e tentava addirittura di alzarsi dalla poltroncina cosa che don Giulio ed io impedimmo più volte.
Incominciò anche a parlare in modo meno confuso, poiché ora i denti non tremavano più, e a dire e a ripetere in forma di supplica che aveva fame. Subito don Giulio gli porse un bel pane e una bella fetta di formaggio incoraggiandolo a mangiare e a bere ancora del tè caldo. Terminata quella merenda fuori orario, il ragazzo richiese un’altra volta del formaggio e del tè e alla fine di quel pasto durato oltre una ventina di minuti, durante i quali don Giulio ed io eravamo stati a guardare senza riuscire a proferire parola, egli riprese una certa sicurezza di sé ed incominciò a ringraziare il parroco ma a ripetere con insistenza che lui doveva andare via per trovare certi suoi amici. Don Giulio gli propose allora più volte di stare a dormire da lui poiché aveva una camera predisposta per qualche predicatore di turno, al momento però libera, e di tornare dai suoi amici la mattina successiva ma questa offerta non sembrava fare presa sulla mente di quel giovane che, scuotendo la testa, richiese ancora qualcosa da mangiare. Don Giulio recuperò subito altro pane e qualche fetta di salame e questa volta versò nel tè tiepido rimasto un sorso di vino. Dopo altri venti minuti il ragazzo sembrava essersi ripreso del tutto e divenne sempre più insistente la sua richiesta di andarsene per incontrare i suoi amici mentre la proposta di dormire a casa del parroco non era per niente presa in considerazione. Ormai era evidente che era impossibile trattenere il ragazzo il quale ad un certo punto rivolgendosi al parroco, dandogli del tu con mia grande sorpresa, disse: Don Giulio ma io devo mangiare anche domani! Non mi puoi dare qualche soldo? Vidi allora don Giulio avere qualche istante di esitazione, solo qualche istante, e poi andare in camera sua e ritornare con 15.000 lire, somma non piccola per quei tempi, e darle al ragazzo il quale poco dopo se ne andò via con addosso la giacca a vento del parroco donatagli in quel momento per ripararsi dal freddo. Rimasti soli, io ebbi il coraggio di chiedere a don Giulio con un tono di rimprovero nella voce: Ma perché ha dato quei soldi a quel ragazzo? Se li spenderà in altra droga! Don Giulio allora mi rispose: Mi ha detto che aveva fame, ho dovuto credergli, ho dovuto dargli fiducia perché solo dando a questi ragazzi fiducia li si aiuta a superare il loro disagio esistenziale e a crescere! Non seppi replicare e me ne tornai subito a casa prendendo le bozze da controllare per l’ultima volta, da solo, essendo l’una e trenta del mattino e sapendo che don Giulio doveva celebrare la prima messa del giorno.   
A distanza di quattro o cinque mesi da questo fatto, sempre durante una correzione di tali bozze, una sera meno tardi del caso precedente, alle undici circa, suonò ancora una volta il campanello della canonica. Don Giulio mi disse di rimanere nello studio ed andò ad aprire.
Non seppi resistere alla curiosità di chi fosse e sfruttando il fatto che tra lo studio e la sala d’aspetto della canonica vi era una porta a vetri, nascondendomi in parte dietro lo stipite della porta, potei spiare la scena senza essere notato. Vidi entrare un ragazzo che io conoscevo, avendo solo qualche anno meno di me, purtroppo anche lui coinvolto in alcuni casi di droga secondo voci insistenti e attendibili che correvano in paese. Era tremante perché molto agitato ma sicuro sui suoi passi. Fu accompagnato subito da don Giulio verso la cucina e potei sentire cosa si dissero avendo io scostato un poco un’anta della porta dello studio. Sentii allora il ragazzo scoppiare in un pianto irrefrenabile e confessare a don Giulio, intercalando numerosi singhiozzi, che voleva uccidere il padre e che proprio poco prima in un ennesimo alterco gli aveva sferrato un forte pugno e poi era scappato via di casa venendo alla canonica.
Don Giulio lo sollecitò con dolcezza ma con autorevolezza a cercare di chiarire i motivi di quel gesto. Emerse allora una storia educativa da parte del padre forse eccessivamente severa e una serie di umiliazioni subite, sempre da parte del genitore, per alcuni errori o presunte incapacità del ragazzo. Il giovane accusava con grande rabbia il padre di rimproverarlo sempre, di sminuirlo ad ogni occasione e di non aver mai ricevuto da lui un segno tangibile di apprezzamento o di affetto tanto meno di fiducia. Gli sembrava insomma di essere un estraneo in famiglia, una situazione che egli diceva di non riuscire più a sopportare e che lo stava portando verso qualche presa di posizione estrema per cui voleva andarsene di casa per sempre.
Don Giulio incominciò allora con calma ad esporre numerose riflessioni al ragazzo, che qui si possono solo riassumere, dicendo che non esiste un genitore perfetto, senza errori, e che non esiste una scuola di genitore in quanto ogni padre si forma giorno per giorno confrontandosi con i propri figli e imparando dalle proprie esperienze così come del resto accade ad ogni figlio che giorno per giorno impara a conoscere e a distinguere, attraverso ciò che sperimenta, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’amore e l’odio, la gioia e il dolore. Per questi motivi non esiste una scuola nemmeno per diventare un figlio migliore e non esiste un figlio perfetto. Esistono padri e figli solo con i loro pregi e difetti che sono stati acquisiti in questo modo e che essi devono sforzarsi rispettivamente di accrescere e diminuire, o controllare, nel corso della vita per crescere sotto ogni aspetto culturale, sociale ed umano. Tutti gli uomini dunque nascono imperfetti e devono tendere a migliorare con le proprie forze. In mezzo a questa lunga riflessione, arricchita di vari esempi concreti, ogni tanto sentivo il ragazzo che sbottava sostenendo che in certe situazioni suo padre era stato il colpevole mentre lui riteneva di essere stato corretto e precisava di tanto in tanto: Mio padre non mi capisce o non vuole capirmi!
Ad un certo punto sentii un tintinnare di bicchieri in cucina e compresi che don Giulio stava offrendo al giovane un sorso di liquore dolce sempre presente per occasioni particolari in canonica. Dopo una discreta pausa di silenzio don Giulio riprese il discorso aggiungendo che proprio dal riconoscere i nostri difetti e le nostre debolezze nasce la capacità di comprenderci a vicenda e di perdonarci anche se abbiamo commesso qualche grosso sbaglio e che la cosa che conta di più è comprendere lo sbaglio fatto e sforzarci di non ripeterlo più. Pertanto don Giulio ammoniva con affetto ma con decisione il ragazzo a ritornare a casa, lo esortava a stare tranquillo e gli suggeriva di chiedere sinceramente perdono a suo padre per quella grave offesa poiché in tal modo anche l’atteggiamento di suo padre verso di lui sarebbe cambiato.
Nel frattempo si era fatta l’una di notte. Vidi, non visto, il parroco accompagnare il giovane all’uscita decisamente rincuorato e più sereno. Ebbi l’impressione che, nonostante tutto, quella sera egli sarebbe ritornato a casa. Quando don Giulio rientrò nello studio gli dissi che avevo bisogno, per completare le correzioni delle bozze, di un suo suggerimento per l’articolo di un signore di Zogno che aveva scarsa confidenza con l’italiano per cui non era molto chiaro ciò che aveva scritto ma che, essendo troppo tardi, avremmo ripreso il problema la sera successiva. Gli augurai buona notte e me ne andai.  ( foto-01)
Seppi con certezza, per il tramite della perpetua, che in vari mesi successivi almeno altri cinque giovani, e qualcuno più di una volta, bussarono ancora alla porta della canonica in piena notte, mentre io non c’ero, cercando un aiuto materiale, psicologico o economico.
Un giorno, a distanza di qualche tempo, ebbi il coraggio di chiedere a don Giulio se io li conoscevo. Mi rispose solo che due di questi sfortunati erano di Zogno mentre tre erano di altri paesi della valle. Purtroppo in tempi successivi un paio di questi ragazzi non riuscirono a superare il loro disagio e le loro difficoltà di crescita mentre gli altri ne uscirono in discrete condizioni.
Compresi allora le profonde motivazioni che spinsero don Giulio ad impegnarsi ancora di più, senza riserve, a livello organizzativo ed economico, insieme ad altre autorità pubbliche e religiose, per realizzare la comunità di accoglienza e di sostegno conosciuta come “La Pèta” in territorio di Costa Serina ed apprezzai ancora di più le qualità umane di don Giulio perché ai miei occhi risultava capace di intervenire con emozione ma con lucidità e praticità sia nel momento di un’emergenza di questo tipo sia nell’immaginare una struttura sociale in grado di affrontare e curare a lungo termine questa delicata malattia di alcuni giovani dipendente anche dall’ambiente in cui avevano vissuto. A quel tempo per tutto ciò ebbi la sensazione che don Giulio a livello umano avesse una grande mente e soprattutto un grandissimo cuore.  
Io non feci mai parola con alcuno degli episodi sopra descritti. Ora che don Giulio ci ha lasciati mi è parso però doveroso segnalarli come ulteriori esempi per comprendere meglio il suo operato di sacerdote che andava ben al di là di ogni regola che il suo abito imponeva, anzi a volte andando proprio contro quelle regole, cercando di privilegiare tuttavia sempre e prima di tutto in ogni uomo la persona, specie se sofferente, per capire meglio i suoi bisogni ed aiutarla nel modo più efficace e amoroso possibile, indipendentemente dalle ideologie professate, dal fatto che fosse credente o no e dal fatto che frequantasse la chiesa o no.


 

Capitolo: Appassionato di Archeologia e Paleontologia

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Benchè Monsignor don Giulio Gabanelli avesse ricevuto questo titolo dalla Curia vescovile ai due terzi circa del suo mandato di parroco a Zogno, per l’esattezza nel 1989, egli non volle mai essere chiamato in questo modo formale ritenendolo troppo distaccato per i rapporti personali e pretendendo di essere chiamato semplicemente col suo nome e con la qualifica di sacerdote cioè don Giulio. Solo così infatti secondo lui era possibile stabilire un contatto umano diretto con qualunque persona, anche sconosciuta, e comprenderne meglio le caratteristiche individuali come pregi, difetti, debolezze e soprattutto bisogni sia materiali che spirituali, insomma per dare e ricevere cioè scambiare tutte quelle conoscenze, idee ed emozioni che sono alla base di un’amicizia. Questo atteggiamento era ancora più evidente e tangibile con le persone con cui egli mantenne un certo grado di confidenza. Pertanto in questo scritto sarà chiamato in questo modo, quello che desiderava di più.
Per comprendere meglio la passione di archeologo e paleontologo che don Giulio svolse senza mai trascurare i suoi impegni e doveri sacerdotali è necessario descrivere come si stabilì la conoscenza di don Giulio con il gruppo di persone che poi lo seguirono in queste attività e in particolare con chi scrive.
I miei primi contatti con don Giulio avvennero nella seconda metà del 1970 partecipando insieme ad altri amici alle prime riunioni del Consiglio Pastorale Parrocchiale che egli concepiva però in quel tempo come atti preparatori al Consiglio Pastorale definitivo che si sarebbe stabilito circa un anno dopo secondo i dettami del Concilio Vaticano II. Questi prevedevano una maggior partecipazione attiva, consapevole e corresponsabile dei rappresentanti di ogni comunità alla missione di proselitismo e di condivisione del messaggio cristiano in altre parole un nuovo e profondo dialogo, uno scambio e consultazione permanente tra i fedeli e le autorità ecclesiastiche a vari livelli con l’obbiettivo che le seconde ascoltassero di più i bisogni materiali e spirituali dei primi specie dei giovani. Il gruppo iniziale di amici di cui facevo parte, quasi tutti studenti influenzati dal clima di contestazione generale di quegli anni, ben presto si divise però tra coloro che desideravano portare avanti le istanze di un centro sportivo e culturale indispensabili a una moderna vita sociale giovanile, rimanendo nell’ambito del Consiglio Pastorale, e coloro che invece volevano portare queste istanze davanti alle autorità politiche di Zogno associandole anche ad altre esigenze della popolazione. Io scelsi questo secondo gruppo che riuscì ad organizzare per la prima volta un’assemblea con dibattito aperto a tutta la popolazione il 3 settembre 1971 al cinema Trieste di Zogno generosamente messo a disposizione da don Giulio pur non condividendone del tutto le idee. Nell’assemblea emersero poi altri problemi sociali di una certa gravità oltre alla mancanza di un centro sportivo-culturale con piscina quali l’inefficienza della rete idrica e delle fognature, la mancanza di strade per le contrade poste nella parte alta della conca di Zogno e quindi la conseguente scarsa assistenza sanitaria per i loro abitanti, la necessità di un secondo asilo infantile e altre. Il tutto fu raccolto in un “dossier” presentato all’Amministrazione Comunale. In seguito a causa degli studi universitari alla facoltà di Fisica a Milano e degli aiuti che dovevo dare nel negozio di famiglia fui costretto ad abbandonare queste attività ma mi rimase molto impressa la disponibilità e la sensibilità di don Giulio verso i problemi pratici della gente, ancor prima di quelli spirituali, che egli aveva mostrato nelle riunioni dei consigli pastorali propedeutici.
L’occasione per conoscere più da vicino don Giulio mi si presentò tuttavia un pomeriggio dell’estate 1972 sul sagrato pochi mesi dopo che dalla ristrutturazione della chiesa parrocchiale, da lui voluta fin dai primi consigli pastorali preparatori, emerse la data 2 maggio 1452 incisa nell’architrave della porta antica di questa chiesa corredata di una lunetta affrescata. Rimase colpito durante il breve colloquio dalla mia osservazione che questa data era assai importante perché dal suo stile gotico risultava autentica nel senso che era stata scolpita nell’anno che esprimeva, a differenza di altre presenti nel territorio di Zogno, e perché gli chiesi come aveva fatto ad intuire che sotto gli intonaci delle pareti esterne della chiesa di epoca neoclassica si nascondesse una struttura più antica. Mi rispose che aveva notato sotto il soffitto del portico a nord della stessa una porzione di tre finestre monofore, lunghe e strette, di stile gotico, cosa che corrispondeva alla realtà. Gli chiesi allora se sapesse dell’esistenza di un’altra data autentica con l’anno 1325 presente sopra la porta laterale della vicina chiesa del convento di clausura di S. Maria. Mi rispose di sì. Gli chiesi allora se avesse visto la croce pure autentica secondo me, anche se senza data, presente sulla parete esterna a nord della parrocchiale di Stabello. Annuì positivamente condividendone con me la probabile origine romanica. A questo punto incalzandolo gli chiesi un’opinione sull’antico vaso di terracotta scoperto in una tomba nella vicina località Quadrèl di cui aveva pubblicato una foto in un numero del notiziario di Zogno pochi mesi prima. Mi rispose che quel vaso era la prova che la Valle Brembana era stata scoperta già da popolazioni preromane, probabilmente attorno al 300 a. C., al contrario di quanto sostenuto da tutti gli storici locali il che mi colpì molto poiché avevo terminato da poco di leggere la Storia di Zogno di Bortolo Belotti. Compresi allora il grado di cultura decisamente ampio di don Giulio ma soprattutto quanto era forte la sua curiosità e profondo il suo spirito di osservazione. Ci salutammo ma rimase in me la voglia di approfondire quella conoscenza.
L’occasione si ripresentò di lì a poco, verso la fine del 1972, quando in seguito alle pressanti richieste della popolazione del Monte di Zogno, sostenuta dal gruppo di giovani contestatori e un poco politicizzati di cui si è già detto, per merito del sindaco e soprattutto per merito della società Prealpi Mineraria che aveva scoperto una miniera di fluorite presso la contrada Camissinone, fu portata la strada carreggiabile fino quasi a S. Antonio Abbandonato. Ciò facilitò a don Giulio e ad alcuni suoi amici esperti di pittura, tra cui il signor Nino Steffenoni, la scoperta nella chiesa di quest’ultima contrada di un quadro sconosciuto, una crocifissione di Gesù firmata e datata 1630, del pittore Carlo Ceresa originario di S. Giovanni Bianco. La voce si diffuse rapidamente in paese e questa volta andai appositamente da don Giulio per sapere qualche dettaglio in più su questo ritrovamento. Mi spiegò in base a certe tecniche di pittura che doveva trattarsi di un’opera giovanile ma importante di questo pittore piuttosto noto. Io ascoltai con molto interesse senza proferire parola tuttavia poiché negli studi di storia dell’arte seguiti qualche anno prima al liceo scientifico Lussana di Bergamo non avevo avuto la possibilità di approfondire la sezione dedicata alla pittura. Il mio desiderio maggiore in quel momento però era di avere qualche informazione anche sul fatto che nel frattempo dalla miniera di Camissinone erano stati estratti cristalli cubici di fluorite di color violaceo anche di mezzo metro di lato, fatto assolutamente raro sia per la dimensione che per il luogo di ritrovamento di questi cristalli. Don Giulio allora mi rispose che ciò era stato possibile poiché nelle rocce sedimentarie calcaree, quindi di natura in genere non cristallina, che caratterizzano il Monte di Zogno a causa dei sommovimenti della crosta terrestre erano penetrate, risalendo dal profondo, rocce magmatiche o di fusione che sono soggette alla mineralizzazione e alla cristallizzazione occupando qualche frattura o faglia degli strati calcarei superficiali e che la valle cosidetta di Carubbo, dove si trovava l’ingresso della miniera, aveva le caratteristiche di una faglia. Rimasi abbastanza sorpreso poiché questi erano i concetti di base della geofisica e della fisica in generale sulla formazione della crosta terrestre, gli argomenti che stavo studiando proprio in quel periodo all’Università. Compresi che don Giulio non solo aveva un’ampia cultura storica e artistica ma anche tecnico-scientifica il che me lo fece diventare amico definitivamente.
Ma le sorprese non erano finite. Durante il 1974 egli pubblicò sempre sul notiziario parrocchiale le foto di alcuni ritrovamenti sporadici di schegge e scheggioni di selce avvenuti per opera di Enio figlio dell’antiquario Bepi Belotti, colui che aveva salvato il vaso preromano, e del signor Antonio Pesenti alla località Pimpol sul Monte di Zogno e, come se avesse un presentimento, raccomandò per scritto sul notiziario ma anche a parole a varie persone di avere molta attenzione quando si ristrutturava una casa o si apriva una strada o si passeggiava tra i nostri monti per non sciupare possibili testimonianze di vita umana archeologica o preistorica del nostro paese della cui esistenza don Giulio era convintissimo. Queste raccomandazioni furono lette ed ascoltate di persona anche da mio cognato, il signor Onorato Pesenti, il quale memore dell’esistenza di alcune grotte non lontane da casa sua nei pressi delle cosidette Grotte delle Meraviglie il 21 gennaio 1975 decise di scavare con molta precauzione in una di queste piccole caverne e con grande meraviglia sua e di suo figlio dodicenne, Gianfranco, emersero dalla terra alcuni denti umani e una mezza rondella in pietra ed una pietra saponaria sfaccettata. Il giorno stesso i ritrovamenti furono mostrati a don Giulio il quale, valutata l’eccezionalità degli oggetti, il giorno dopo si accordò con Onorato e, dimessa la veste sacerdotale, in pantaloni da operaio si mise pure lui a scavare in quella grotta con la cazzuola e a mani nude. Io e l’amico Franco Carminati detto Prida ci accodammo subito al gruppo che comprendeva anche i fratelli di Onorato, Bernardino e Marco, e il nipote acquisito Franco Sonzogni, partecipando agli scavi e cercando di assecondare il più possibile le raccomandazioni di don Giulio. Tutti noi vedemmo allora come don Giulio frugasse a mani nude nella terra con estrema attenzione e concentrazione, come se stesse celebrando un rito religioso che alla fine sarebbe sfociato nella scoperta di un segnale di vita umana di un tempo molto lontano, ma pur sempre umana, e quindi nella scoperta di qualcosa di sacro. E che per don Giulio questa ricerca fosse simile ad una cerimonia religiosa, ad una preghiera o invocazione di un’entità sacra si deduce anche dalle sue parole che chi scrive ha sentito più volte da lui ripetere come un mantra: “ogni oggetto, ogni pietra è una preziosa testimonianza soprattutto quando è passata tra le mani di un uomo e ne porta la sua impronta”. Tutti noi ne rimanemmo molto impressionati ma chi fu più condizionato e quasi stregato da questo fervore di don Giulio fu mio cognato Onorato che ebbe la possibilità di rivivere questa esperienza un’altra volta abitando a poca distanza da quella caverna ed avendo di essa vari ricordi giovanili ed emotivi legati in parte a fatti della seconda guerra mondiale e in parte a racconti un poco leggendari degli anziani del luogo. In particolare il rinvenimento di una pietra parzialmente lavorata somigliante vagamente a una testa di cane fece dire a don Giulio che quella era la testimonianza che quella grotta era stata la sepoltura di una delle famiglie più antiche di Zogno, i Sonzogni, il cui stemma è per l’appunto una cagna rampante e che questi lontani progenitori attraverso una serie di circostanze favorevoli “avevano voluto farsi ritrovare” dai loro discendenti, cioè dai loro “figli”, come se ci fosse stata una strana e misteriosa comunicazione tra il mondo dell’al di là e il mondo presente. Benchè quell’affermazione fosse il frutto di una fervida immaginazione ciò nonostante quell’idea e quell’intuizione turbò misteriosamente tutti i componenti del gruppo facendo loro accapponare la pelle e coinvolgendoli ancora di più in queste ricerche. In pochi interventi successivi in quella grotta detta di Andrea e in un’altra quasi contigua, detta del Tabàc, furono rinvenuti molti reperti preistorici pubblicati in parte come prima segnalazione nel numero di Zogno Notizie del febbraio 1975 e poi in modo più completo in numeri successivi di quell’anno con interessantissimi commenti dello stesso don Giulio orientati a far comprendere due aspetti fondamentali di queste scoperte. ( foto-02)
Il primo aspetto riguardava il significato scientifico di questi reperti eccezionali per quantità e qualità. Basterà ricordare qui che furono recuperate 11 punte di freccia in selce con peduncolo di cm. 4 di lunghezza; 21 raschiatoi sempre in selce lunghi da cm. 3 a cm. 5; 26 raschiatoi a semiluna lunghi cm. 2; 50 denti forati di vari animali lavorati in varie fogge; 13 anellini in osso; 39 elementi forati in rame; 2 pendagli in pietra per collana e alcuni punteruoli o aghi in osso. A tutto ciò si deve aggiungere un grande numero di resti di ceramica grezza in parte lavorata in modo arcaico, oltre 500 denti umani e numerose ossa umane frantumate ma senza alcun resto di crani. Don Giulio faceva subito notare che i 26 raschiatoi a semiluna erano una novità importante per l’Italia settentrionale e che gli elementi di collana in grado di completare almeno 4 o 5 collane distinte e di tipo diverso erano una novità assoluta per l’antichità preistorica di tutta l’Italia. Queste affermazioni, che si rivelarono quasi tutte corrette poco dopo quando furono sottoposte alle indagini della dr.ssa Raffaella Poggiani Keller, divenuta successivamente funzionario della Sovrintendenza, e di altri studiosi ufficiali di cui don Giulio si era fatto il tramite per motivi di conoscenza personale, derivavano non solo da alcuni studi che don Giulio aveva compiuto in modo autodidattico ma anche perché egli aveva già contribuito a far scoprire un sito archeologico protostorico al Castello di Castione e a fare scavi, ritrovare ed esaminare vari reperti preistorici nella “Bùsa del Canàl de l’Andrùna” a Premolo tra gli anni “50” e “60” del secolo scorso quando svolgeva l’incarico di coadiutore all’oratorio di Castione della Presolana. Dalle caratteristiche di tutti i reperti in selce, in osso e in rame e dai resti di ceramica don Giulio concludeva che questi uomini primitivi non solo sapevano lavorare una pietra dura come la selce, ma cacciavano la selvaggina con archi e frecce, pescavano nel fiume Brembo con reti che tenevano tese con rondelle o fusaiole di pietra pomice, raccoglievano bacche commestibili nei boschi, sapevano lavorare l’argilla modellando vasi e scodelle, sapevano confezionare abiti da pellicce di animali, erano in grado di realizzare monili in pietra, in osso e in rame e quindi forse erano in grado di cercare i minerali ricavandone per l’appunto il rame, il primo metallo scoperto dall’uomo, anche se in questo caso è più probabile che il rame provenisse da scambi commerciali. Infine essi seppellivano i propri morti in queste grotte quasi di certo in superficie in modo che la rapida decomposizione di un corpo dava spazio alla successiva sepoltura senza trascurare tuttavia di corredare la salma del defunto con gli oggetti che erano stati quelli di maggiore interesse o di uso corrente nella sua vita testimoniando la pratica di un primitivo culto dei morti. Tutte queste risultanze secondo don Giulio dimostravano l’esistenza di una popolazione preistorica culturalmente omogenea o “facies” che era giunta in Valle Brembana e specificamente a Zogno in tempi inimmaginabili prima di queste scoperte, per l’esattezza circa 2000 anni prima di Cristo o anche più, diffusa probabilmente in tutte le valli orobiche, e che egli definì “la civiltà di Andrea” derivandola dal nome della grotta e osservando che Andrea a sua volta deriva dal greco antico “anèr-andròs” il cui significato è uomo e in senso lato umanità.
Il secondo aspetto di queste importanti scoperte su cui don Giulio insistette molto a parole con gli appassionati del gruppo delle ricerche e con vari abitanti di Zogno, facendo anche qualche riferimento contestualizzato ai tempi moderni in alcune omelie in chiesa, riguarda alcune conclusioni a carattere religioso e morale che egli dedusse da quelle tracce di un culto arcaico dei morti e che dimostrano come don Giulio sviluppasse questo interesse per l’archeologia e la preistoria sempre però filtrato o mediato dalle esigenze della sua missione sacerdotale di approfondire, testimoniare e diffondere il messaggio cristiano. In effetti egli era stato molto colpito dal ritrovamento nella grotta delle ossa frantumate di molti individui senza tuttavia resti di crani. In un primo momento ciò lo aveva indotto a pensare che la popolazione preistorica scoperta praticasse il cannibalismo sia pure all’interno di un rito tribale che aveva l’intento comunque di celebrare la vita. Ma questa spiegazione al problema della mancanza dei crani non lo soddisfaceva poiché l’eventuale aspirazione del cervello del defunto, morto da poco, solo con lo scopo di cibarsene gli appariva troppo materialistica e riduttiva. Il fatto stesso che ciò avveniva quasi di certo durante un rito con la partecipazione di tutta la comunità presupponeva uno scopo più alto e più nobile secondo lui. Solo dopo circa un anno, quando furono individuati alcuni resti di crani conglomerati con altri reperti simili a quelli della grotta di Andrea in un’altra grotta più grande detta “del Paièr” o “dell’Edera”, situata sempre nei contrafforti della Corna Rossa ma più in alto presso la contrada Castello, don Giulio individuò una soluzione più soddisfacente al problema. Egli pensò allora che probabilmente il cervello del defunto poteva essere succhiato dai componenti della comunità durante un rito ma non tanto per cibarsene bensì per impossessarsi della sua forza e della sua energia vitale, oggi si direbbe del suo spirito, dopo di che il cranio veniva messo in mostra in qualche nicchia della grotta per ricevere sia la pietà che l’ammirazione dei parenti e degli amici per ricordare e tramandare ciò che egli era stato in vita. In questo aspetto del culto arcaico dei morti don Giulio intravvedeva l’origine del culto cristiano dei morti che fino alla metà del XIX secolo comprendeva la tradizione di mostrare all’interno dei cimiteri presso la chiesa parrocchiale o in apposite cappelle dei crani umani staccati dal corpo per ricordare ai vivi la natura effimera della vita terrena, l’affetto che si deve conservare per i propri cari defunti e il dovere di seguire i loro esempi più virtuosi di vita a livello religioso, civile e umano. Per inciso un esempio concreto di questa tradizione si può osservare ancora oggi nella cappella-ossario esterna e contigua verso nord alla chiesa parrocchiale di Grumello de Zanchi. Come accennato prima questi concetti con opportune parole ed esempi contestualizzati ai tempi moderni furono anche i temi di alcune omelie tenute da don Giulio in chiesa in particolare durante le festività dei morti per sottolineare l’importanza di questo rito antichissimo, ricco di significato e fulcro delle nostre tradizioni ma nei tempi moderni purtroppo molto trascurato. ( foto-03)
Un altro aspetto legato al precedente in quanto secondo don Giulio pure espressione di una sorta di religiosità arcaica è la lavorazione di quasi tutti i componenti delle numerose collane ritrovate, in prevalenza denti di vari animali, a forma di pesce esprimente l’organo sessuale maschile o fallo e a forma di goccia che, considerati a coppie, esprimono il seno femminile senza dire che anche i loro pendagli in pietra a forma di cestello o di battacchio hanno senza dubbio una valenza sessuale. Ora una ricchezza così sovrabbondante di riferimenti espliciti agli organi sessuali umani non doveva essere intesa secondo don Giulio come l’espressione di persone malate o maniache ma come la celebrazione degli organi da cui misteriosamente, magicamente e incomprensibilmente per quei lontani tempi derivava la vita. Non si trattava dunque di un’esposizione sessuale lussuriosa ma di un’espressione di felicità immediata, semplice, ingenua e innocente per dire quanto fosse importante la vita, da interpretarsi insomma come un inno alla vita. Poiché queste collane erano quasi di certo indossate in occasioni importanti o solenni come può essere un rito di iniziazione o di propiziazione, nuziale o funebre, si deve concludere che esse non erano semplici oggetti di ornamento del corpo ma costituivano un elemento fondamentale del rito che metteva in risalto la partecipazione della persona alla cerimonia stessa volendo significare che la cerimonia era tanto importante per quella persona come era importante l’origine della vita rappresentata da quei tanti riferimenti sessuali. Dunque accanto alla celebrazione gioiosa e fisica della vita vi era anche una consapevolezza della sua fondamentale importanza vale a dire della sua sacralità. Per questi motivi si poteva dire che questi uomini primitivi erano caratterizzati da una religiosità costituita non solo dal culto dei morti ma anche dal culto della vita espresso attraverso un’ostentazione degli organi predisposti a farla sbocciare. Ma nei millenni successivi questo stato di felicità e di innocenza del tutto spontanea e naturale per quanto riguarda gli aspetti relativi alla vita sessuale per motivi ancora oggi non chiari è andata perduta. Secondo don Giulio man mano l’uomo prendeva coscienza delle sue capacità intellettuali si è lasciato vincere da un senso di superiorità nei confronti di tutto il creato incominciando necessariamente in modo arrogante e predatorio anche a disprezzarlo, a svalutarlo e a danneggiarlo rompendo quell’equilibrio con la natura che esisteva prima. Tra le conseguenze di questo comportamento vi è stato però anche un contemporaneo dileggio e una profanazione del proprio corpo che ha portato all’incapacità di considerare il sesso come uno strumento naturale per ricreare e perpetuare la vita facendolo a volte oggetto di derisione più o meno oscena o circondandolo a volte di tabù, di paure che spesso sono sfociate e sfociano in deviazioni sessuali. In sostanza l’uomo moderno ha dissacrato nella sua storia il sesso al contrario di quanto avevano fatto i nostri antichi progenitori. Tutto ciò era riconoscibile come il frutto della colpa dell’atto di superiorità e arroganza iniziale come è illustrato nella Bibbia con l’episodio del peccato originale o con l’episodio di Cam quando, irriverente, aveva riso sulle nudità di suo padre Noè ubriaco. Anche questi concetti furono esposti da don Giulio all’interno del gruppo di appassionati durante alcune richieste di spiegazioni a lui fatte e durante alcuni scambi di opinione così come furono il tema di alcune sue omelie tenute in chiesa e contestualizzate ai tempi moderni. ( foto-04 )
Tutte queste affermazioni furono riconosciute nella sostanza corrette dagli esperti ufficiali di archeologia e preistoria ad eccezione di due circostanze particolari. La prima riguardava il culto degli antenati secondo cui, in base ad altre scoperte fatte in altre grotte sepolcrali dell’Italia settentrionale e per affinità di cultura e contemporaneità di epoca, il distacco del cranio e la frantumazione del corpo del defunto non avvenivano quasi subito dopo la morte ma assai tempo dopo e intenzionalmente per facilitare l’assunzione del defunto nel mondo degli antenati attraverso una sua spersonalizzazione e nello stesso tempo o per propiziarsi con riti collettivi e con cibi e bevande lo spirito degli antenati o, al contrario, per difendere la comunità da qualche eventuale loro influsso negativo. La seconda consiste nel fatto che in base ad alcuni ritrovamenti successivi di selci lavorate in modo assai arcaico in un’altra grotta detta “del Pussù”, situata sulla cima occidentale delle due vette della Corna Rossa presso la contrada Cassarielli, si poteva affermare con assoluta sicurezza che, se anche non abitata in modo stabile, la Valle Brembana era stata comunque frequentata da uomini primitivi in epoche assai più lontane di quanto immaginato in un primo momento per l’esattezza nel periodo Mesolitico vale a dire circa 10000 anni prima di Cristo.
E’ inutile dire quanta importanza e quanto valore culturale, storico, scientifico ed anche per così dire religioso attribuisse don Giulio a questi reperti per i quali propose subito in accordo con il gruppo degli appassionati la creazione di un museo pubblico per conservarli e tramandarne la memoria e, in attesa di una simile realizzazione da parte del comune di Zogno, suggerì e si fece promotore per depositare i reperti più significativi, in accordo con la Sovrintendenza, al Museo della Valle di fresca apertura a quell’epoca. In occasione di ciò fu pubblicato nella primavera del 1980 un volumetto edito dal Museo stesso e scritto dalla responsabile dr.ssa Keller che riassumeva in modo tecnico e assai esauriente i primi risultati di queste scoperte fino a quel momento.
Successivamente il gruppo di appassionati zognesi per il tramite di don Giulio si allargò ad altre persone della valle che con le loro segnalazioni permisero di individuare e in parte scavare alcune altre grotte o siti, sempre in accordo o insieme alla Sovrintendenza, non solo del circondario di Zogno ma anche di tutta la Valle Brembana. Tra questi siti si possono citare la grotta di Solmarina presso Endenna, di Costa Cavallina non lontano da Clanezzo, nella piana di Bondo, al pianoro o terrazzo fluviale di Clanezzo stesso, a Piazza Brembana alla località Castello, in alta Valle Brembana a circa 2000 metri di altezza alla località Azzaredo a monte del rifugio Madonna delle Nevi. Ben presto il gruppo, capitanato da Onorato Pesenti, divenne anche il punto di riferimento a nome della Sovrintendenza per la raccolta di reperti preistorici ritrovati in modo occasionale e dispersi nel territorio di tutta la valle senza alcun contesto e consegnati alla Sovrintendenza stessa comunque per fini di studio. E mentre questi ritrovamenti diventavano ogni giorno più numerosi e incredibili don Giulio era sempre curioso di vederli e commentarli e pronto a documentarli abbinati ad alcune foto scattate da Franco Carminati – Prida pubblicandoli sul notiziario Zogno Notizie. Dopo che la gran parte di questi reperti fu esaminato e studiato dagli esperti del settore, dopo molte traversie dovute alle difficoltà economiche del comune di Zogno nell’approntare il museo promesso, il tutto venne riunito, depositato ed esposto in bella mostra, sempre col benestare della Sovrintendenza, nel settembre 2014 in una apposita sezione al Museo della Valle, appartenente alla Fondazione Polli, grazie al fatto che oltre trent’anni prima già questo museo aveva dato la disponibilità ad accogliere il primo gruppo di ritrovamenti preistorici. ( foto-05)
Per quanto riguarda l’interesse di don Giulio per la paleontologia cioè per i fossili, sia di natura vegetale che animale, bisogna sottolineare il fatto che già durante i primi scavi nelle grotte preistoriche per le ricerche archeologiche egli aveva dato dimostrazione agli appassionati che partecipavano di avere notevoli conoscenze anche in questo campo. Infatti non appena furono individuate nel terriccio di fondo delle grotte numerose conchigliette fossili lunghe circa due centimetri, per gli associati del gruppo senza alcun particolare significato, egli le definì invece subito come molto interessanti ritenendole degli indicatori guida della presenza di possibili reperti preistorici di attività umane poichè queste conchigliette secondo lui erano ricercate e usate dagli uomini primitivi come elementi di adorno del corpo o più probabilmente come moneta di scambio e forse come strumento di numerazione cioè di aiuto pratico nel conteggio di vari tipi di oggetti o animali. E’ inutile dire che queste idee di don Giulio, frutto di una fervida immaginazione, benchè in seguito non abbiano avuto riscontri e conferme a livello scientifico, tuttavia furono trovate dai componenti del gruppo molto affascinanti e intriganti e di certo servirono a influenzarli e a spronarli ancora di più in queste ricerche sia archeologiche che paleontologiche. Non è da escludere nemmeno che don Giulio si sia espresso con queste parole intenzionalmente proprio con questo secondo scopo. E in effetti non molto tempo dopo all’osservazione che quasi tutti gli appassionati del gruppo avevano visto tracce di conchiglie fossili ben più grandi di quelle in questione non lontano dalla chiesa di Miragolo S. Marco, chiamate dalla gente comune “le peste del diavolo” perché sembravano impronte delle zampe di mucca e perché il diavolo era spesso dipinto nei quadri delle chiese come un essere mostruoso con gli arti inferiori simili a quelli di una vacca, don Giulio iniziò una sorta di lezione di geologia precisando che quella conchiglia in genere alquanto ampia era una bivalva marina tecnicamente chiamata “Conchodon” che era vissuta durante il periodo geologico del Retico medio vale a dire circa 200 milioni di anni fa. Continuò poi precisando altri dettagli geologici quali il fatto che le rocce del Retico medio poggiavano su altre rocce, sempre sedimentarie, ma più antiche e di una colorazione diversa, più scura, che sconfinavano col Triassico medio, un periodo risalente a circa 230-250 milioni di anni fa, fatto che nel territorio zognese era osservabile assai più che in altri luoghi della valle. Aggiunse che in questi strati più profondi e antichi era possibile individuare vari tipi di conchiglie di gasteropodi ma in particolare un tipo a forma di vite elicoidale caratterizzato da numerose circonvoluzioni disposte una sopra l’altra e crescenti in senso verticale a tal punto da superare l’altezza di 60 centimetri dunque di dimensioni assai superiori a quelle dei corrispondenti gasteropodi moderni il che rappresentava una testimonianza di vita animale assai primordiale non molto successiva in termini geologici alla nascita del nostro pianeta. E’ inutile dire che queste parole ci riempirono di stupore per le conoscenze che don Giulio dimostrava di possedere e che rappresentarono per tutti noi un’iniezione di curiosità e di eccitazione per la possibile scoperta di queste testimonianze anche nel nostro territorio e in generale in Valle Brembana.
Il destino o il caso volle che non molti mesi dopo la scoperta della grotta di Andrea si diffondesse in paese la notizia che alcuni raccoglitori o collezionisti dilettanti di fossili, andando in giro per il circondario di Zogno muniti di martello per rompere qua e là alcune rocce superficiali con lo scopo di trovare “qualcosa”, avevano effettivamente individuato delle tracce di alcuni piccoli pesci di pochi centimetri di lunghezza. In particolare la notizia divenne insistente quando verso l’autunno del 1975, avendo il comune di Zogno costruito una strada forestale in territorio di Endenna per captare una sorgente di acqua, si produsse uno smottamento del terreno che mise in evidenza delle lastre di roccia simili a lavagne in cui alcuni di questi dilettanti riuscirono a recuperare parti di fossili strani che non sembravano solo di pesci. E’ poco dopo questo fatto che il gruppo di appassionati delle ricerche preistoriche, avendo bene in mente le parole e i suggerimenti di don Giulio, decise di dedicarsi anche a quest’altro tipo di ricerche. Con a capo sempre Onorato Pesenti si cominciò a scavare in modo più impegnativo e sistematico, anche se da dilettanti, e ben presto in quel luogo si individuarono i primi fossili di pesci di apprezzabili dimensioni che apparivano su quelle pietre grigio-scure come delle ombre non facilmente distinguibili. A volte solo la sensibilità di Onorato e di suo figlio Gianfranco permise di riconoscere queste flebili tracce. In queste ricerche il lavoro di scavo era parecchio impegnativo e assai più faticoso che nelle grotte in quanto si trattava di rimuovere strati di roccia piuttosto duri e pesanti a colpi di martello e piccone e non semplice terra. Nei primi mesi si procedette da soli in modo timido e spontaneo ma con molta attenzione e circospezione per non distruggere e perdere quelle tracce delicate. Poi agli inizi del 1976 il gruppo, sempre per il tramite di don Giulio che aveva intuito l’importanza dei primi ritrovamenti per la loro qualità ed estrema antichità, si mise a disposizione del professor Andrea Tintori dell’Università di Milano, Dipartimento di Geologia e di Scienze della Terra, neolaureato con indirizzo paleontologico che aveva ottenuto la concessione degli scavi da parte della Sovrintendenza ai beni archeologici, storici e culturali della Regione Lombardia. Sotto la direzione del professor Tintori gli scavi furono condotti con metodi scientifici e ben presto fornirono un numero elevato di esemplari fossili non solo di pesci ma anche di rettili depositati per motivi di studio in vari musei della Lombardia e non solo. A quegli scavi il professor Tintori fece partecipare in varie occasioni alcuni studenti universitari che furono affiancati e di supporto al nostro gruppo ed ebbero così modo di comprendere come si sviluppassero nella realtà queste ricerche completando gli studi teorici con attività pratiche. C’è da sottolineare il fatto che vari di questi giovani studenti, poco più che ragazzi, provenivano da località della Lombardia assai lontane da Zogno per cui il gruppo si preoccupò di trovare per loro un alloggio in affitto. ( foto-06)
Poco dopo il 1980 il nostro gruppo di appassionati, che è utile ricordare alternava gli scavi di tipo archeologico a quelli di tipo paleontologico, grazie all’esperienza acquisita nel giacimento di Endenna, riuscì ad individuare in una zona non molto distante, per l’esattezza a Poscante, un nuovo giacimento pressoché intatto dove poi si concentrarono le ricerche negli anni successivi, ricerche che dettero altri interessanti e fondamentali risultati. Vale la pena di ricordare in sintesi alcuni di questi ritrovamenti. Tra i pesci il tipo Paralepidotus dalla forma tozza, rivestito di scaglie spesse, dal nuoto lento con denti emisferici atti a triturare i molluschi che vivevano sul fondo in acque basse. L’esemplare migliore ritrovato è lungo 65 cm. Il Pycnodonte il più simile a quei tanti pesci di colori sgargianti che oggi vivono tra le scogliere coralline: è appiattito verticalmente con lunghe pinne flessibili che permettono di mantenersi in equilibrio anche quando il pesce è fermo nell’acqua. Ha denti a scalpello per rompere i coralli e altri incrostanti di cui si nutriva. L’esemplare migliore sfiora i 15 cm. Il Saurichthys dal corpo lungo e sottile paragonabile al moderno barracuda molto veloce nel nuoto, con denti assai aguzzi e grandi atti ad afferrare le prede. Vari esemplari ritrovati superano la lunghezza di un metro. Il Thoracopterus che è un pesce volante: con le pinne pettorali più lunghe di tutto il corpo e con la coda che ha un lobo inferiore più sviluppato di quello superiore poteva spiccare salti fuori dall’acqua per alcune decine di metri sfuggendo ai suoi predatori. L’esemplare migliore ritrovato è lungo 10 cm. Il tipo Gabanellia Agilis, un pesce nuovo come specie, famiglia e genere, che il professor Tintori volle dedicare e intitolare nel nome a don Giulio per ringraziarlo dei tanti aiuti economici e morali da lui ricevuti per le ricerche paleontologiche sul territorio di Zogno. Era un pesce molto ben affusolato ma non angulliforme con una pinna caudale biforcuta assai sviluppata e numerose scaglie sui fianchi che davano alla parte centrale del corpo una grande flessibilità. Era un abilissimo nuotatore di mare aperto, donde la qualifica nel nome di Agilis che in latino significa svelto o veloce, e inseguiva le sue prede per molto tempo prima di afferrarle, perché esauste, ingoiandole per intere se piccole o facendole a brandelli se dalle dimensioni paragonabili alle sue. L’esemplare ritrovato è lungo circa 25 cm. Altro pesce importante è il Sargodon Tomicus molto sviluppato in senso verticale e con lunghe pinne dorsali e ventrali che permettono una grande manovrabilità nell’accedere agli anfratti rocciosi più scomodi. I suoi denti aguzzi in prima fila servivano a rompere i coralli e altri incrostanti delle barriere coralline mentre i denti emisferici nella parte più interna della bocca servivano a triturare le parti molli per inghiottirle, dunque non era molto diverso dal Pycnodonte già illustrato ma in genere era di dimensioni assai maggiori. L’esemplare più bello misura 65 centimetri. Tra i rettili si deve citare il Placodonte, il cui nome significa “con denti piatti”, che presentava sul dorso una corazza del tutto simile a quella di una moderna tartaruga, ben diverso tuttavia nel resto del corpo. Viveva sulla terra ma molto anche in acque paludose. Uno degli esemplari misura una lunghezza di 186 centimetri. Un rettile solo marino era Ittiosauro un cui esemplare supera i 4 metri di lunghezza. Aveva come bocca una sorta di lungo becco o rostro irto di denti aguzzi. Un rettile invece solo terrestre era Endenna Saurus lungo più di un metro mentre Drepanosauro era un rettile terrestre ed arboricolo con zampe dotate di lunghi artigli e una coda munita di un singolare uncino paragonabile nello stile di vita al moderno bradipo. Da notare che gli ultimi tre tipi di rettili sono ora esposti al museo paleontologico di Bergamo in città alta. Non si possono poi elencare i pesci di piccola taglia, lunghi 7 o 8 centimetri, prede dei pesci più grandi, paragonabili alle moderne acciughe e chiamati Folidofori e infine alcuni esempi di gasteropodi e crostacei primitivi. ( foto-07)
Ritornando al tema principale si deve precisare che il nostro gruppo di volontari non solo si specializzò nella conduzione di quegli scavi assai particolari ma con il suo rappresentante, Onorato Pesenti, si specializzò anche nella preparazione dei fossili. E’ grazie al lavoro minuzioso, paziente e sfiancante per la vista di Onorato che è stato possibile mettere in risalto importanti dettagli anatomici di questi animali fossilizzati facendo comprendere meglio le funzioni dell’animale, il suo tipo di alimentazione e le sue caratteristiche in non pochi casi di specie nuova. Grazie a tutto ciò Zogno, nel campo scientifico, diventò una delle località più importanti al mondo per i fossili del Triassico, vale a dire per testimonianze di vita di circa 230 milioni di anni fa. Chi scrive si ricorda assai bene i commenti di apprezzamento fatti da don Giulio qualche sera a casa di Onorato ma anche le sue considerazioni sul fatto che quei fossili rivelavano particolari delle scaglie dei pesci, della pelle rugosa e squamata dei rettili o della conformazione delle ossa di quegli animali come mai si erano visti prima di allora nonché il significato di questi fossili come scoperte di nuove forme di vita e quindi di maggiori conoscenze sull’evoluzione della vita sulla terra in tempi primordiali. Tutto ciò dimostrava la sua grande preparazione da autodidatta in questo campo non solo teorica ma anche pratica poiché, proprio in quelle conversazioni, si apprese che don Giulio si era occupato di fossili e li aveva in parte scavati e trovati in Valle Seriana e attorno alla Presolana durante la sua permanenza a Castione e durante alcune gite in montagna in quelle zone. In particolare come risulta da una recente pubblicazione egli partecipò in quegli anni alla scoperta e al riconoscimento di un primordiale gasteropodo sopravvissuto fino ad oggi tra le crepe e gli anfratti delle rocce della Presolana.
L’importanza che don Giulio attribuiva ai nuovi reperti zognesi, che non avevano alcun legame diretto ne culturale ne concettuale con la sua missione sacerdotale, si può capire dal fatto che nel 1985 egli non esitò un istante a promuovere una mostra di questi fossili nella chiesetta della Confraternita accanto alla parrocchiale organizzata dal gruppo degli appassionati con alcuni suggerimenti tecnici del professor Tintori. Lo scopo della mostra era quello di diffondere, far conoscere e spiegare alla comunità e alle autorità pubbliche, che già erano state sollecitate a realizzare un relativo museo di conservazione, anche queste preziose testimonianze che risultavano sconosciute, misteriose e per certi versi inquietanti alla maggior parte della popolazione. All’uscita da questa esposizione infatti molti visitatori rimanevano increduli, pensierosi e stupiti ma nel complesso desiderosi di conoscere e di sapere di più sulla storia e le origini del nostro territorio. L’importanza attribuita da don Giulio a questi reperti si può comprendere ancor più quando nel 1991, vedendo le incertezze e le difficoltà del comune nel realizzare il museo da tanto tempo richiesto dagli appassionati e per il quale si era costituita l’associazione culturale “Amici della Preistoria”, mise a disposizione una sala del museo della Vicaria di S. Lorenzo cioè della parrocchia di Zogno per esporre alcuni dei più significativi fossili tra i tanti estratti. L’allestimento di questa sala fu a carico del gruppo di appassionati ma varie spese vive legate ai supporti per l’esposizione, alla vetrina di non piccole dimensioni e al sistema di sicurezza antifurto furono sostenute direttamente da don Giulio senza intaccare il bilancio della parrocchia. Fu così possibile aprire e gestire, con il benestare della Sovrintendenza, un piccolo e per forza di cose limitato museo ma assai importante e prezioso per la qualità e il significato scientifico dei reperti visitabile su prenotazione ed è noto che per svariati anni tra i visitatori più entusiasti ci furono numerosissimi ragazzi delle scuole inferiori di molti paesi della bergamasca ma anche alcuni studiosi provenienti da varie parti dell’Europa.
Don Giulio non esitò ancora una volta, con il suo mandato di parroco scaduto da lungo tempo ormai, a fornire alcuni consigli e proposte di soluzioni anche quando, a causa delle difficoltà nell’ottenere un museo civico pubblico, si decise di proporre al Museo della Valle di accogliere in due nuove sezioni tutti i reperti archeologici e paleontologici recuperati sino a quel momento. Dopo alcune altre lungaggini burocratiche ciò si potè realizzare finalmente nel settembre del 2014, una data fondamentale sotto vari aspetti per la storia di Zogno. ( foto-08)
In effetti si deve sottolineare che per allestire queste due nuove sezioni furono recuperati dai depositi della Sovrintendenza o da alcuni musei italiani, ai quali alcuni pezzi erano stati prestati per mostre, tutti i reperti archeologici provenienti da Zogno che in parte a Zogno non erano mai stati visti prima dalla popolazione e si deve dire lo stesso per alcuni fossili presenti nei depositi dell’Università Statale di Milano dove si trovavano da tempo dopo gli studi in attesa di essere messi in mostra. In tal modo si realizzava per la prima volta un’esposizione pubblica e completa risultata davvero cospicua. Per il Museo della Valle già caratterizzato da una storia prestigiosa per quanto riguarda i suoi temi espositivi originari legati alle antiche professioni dell’uomo le due nuove sezioni hanno significato un approfondimento e un allargamento dell’orizzonte culturale in quanto tra i reperti della preistoria umana ci sono attrezzi da lavoro e da caccia antichi di millenni quindi assai anteriori agli attrezzi di qualche secolo fa ma pur sempre inerenti allo stesso tema, mentre per i fossili si tratta di un argomento totalmente nuovo a carattere più scientifico che socio-culturale anche se sempre legato a tempi antichi. In un certo senso questo secondo tema si può riguardare sotto l’aspetto di essere una premessa ambientale necessaria e indispensabile a quanto si è sviluppato, dal punto di vista umano, nelle epoche successive in Valle Brembana. Infine per Zogno si può dire che in queste due sezioni ci sono le testimonianze dirette che la sua storia, ma anche quella della Valle Brembana in generale, è antichissima incominciando in un tempo che era inimmaginabile prima di queste scoperte e tanto lontano nel passato da essere concepibile con difficoltà dalla mente umana poiché si tratta di un periodo collocato per davvero nella notte dei tempi e non come semplice modo di dire.
Altre conoscenze tecniche, scientifiche e culturali di don Giulio ebbero modo di manifestarsi più volte all’interno del nostro gruppo durante conversazioni di piacere occasionali e spontanee. Ad esempio dal fatto che dai giacimenti di Zogno non erano emersi sostanzialmente fossili vegetali egli trasse particolari spiegazioni sulla collocazione del tratto di mare primordiale, sul cui fondo si erano depositati i corpi morti dei pesci o dei rettili, rispetto alla terraferma o sulla salinità e le correnti delle sue acque o, con più sicurezza, sulla natura chimica dello scheletro delle foglie e delle erbe primordiali che si erano evaporate e consumate del tutto prima di andare soggette alla mineralizzazione e quindi alla pietrificazione. Da ciò emerse quanto egli sapesse della biologia e della morfologia delle piante antiche e quali fossero i suoi interessi e curiosità in questo campo poiché confessò di avere avuto occasione di visitare il famoso museo di Bolca, sui Monti Lessini in Veneto, dove invece i fossili vegetali sono assai abbondanti anche se relativi ad un’epoca molto meno antica dei fossili di Zogno. Quelli di Bolca infatti risalgono solo, si fa per dire, a 50 milioni di anni fa circa quando incominciò a sollevarsi la catena della Alpi. Ma parlando di piante fossili quasi sempre don Giulio non poteva fare a meno di parlare di piante o di erbe più recenti utilizzate comunque già da molti secoli sia in cucina, sia in campo medico che nel campo dei profumi. E’ incredibile come egli descrivesse a memoria le caratteristiche morfologiche, organolettiche e scientifiche di queste piante e come le riconoscesse istantaneamente nei prati, fatto che capitò di osservare a chi scrive quando accompagnò alcune volte don Giulio sul Monte di Zogno presso le chiesette di alcune contrade e in particolare una volta sul monte Cabianca, in alta Valle Brembana, per celebrare una messa a favore dei soci del club alpino italiano di Zogno che avevano installato una piccola croce con una campana su quella cima. In questa occasione egli dimostrò di conoscere anche tutti gli innumerevoli fiori di alta montagna.
Le sue piante o erbe preferite erano comunque quelle usate in cucina o per curare ferite e malattie. Per ogni ferita o malattia egli indicava un’erba ben precisa e dava la spiegazione immediata del motivo per cui quell’erba era efficace e quasi sempre accompagnava la spiegazione con un proverbio popolare bergamasco inerente al caso. La spiegazione per la verità non era molto scientifica ma don Giulio era consapevole di ciò e comunque contento e soddisfatto poiché sapeva che il rimedio funzionava anche senza conoscere tutti gli algoritmi chimici e fisici del processo come del resto l’esperienza pratica plurisecolare sembrava dimostrare. Non di rado suggeriva vivamente anche a noi di applicare uno di questi metodi antichi quando qualcuno si lamentava in sua presenza di un malanno ed effettivamente qualcuno di noi provò ad applicarlo con buoni risultati. Più di una volta, sentendo questi discorsi, tutti noi gli dicemmo che ci sembrava un mago o uno stregone che si sarebbe adattato con notevole successo a vivere nel mondo degli uomini preistorici mentre lui se la rideva di gran gusto. Di frequente il discorso cadeva sul tema degli animali, specie di quelli addomesticati, che egli conosceva perfettamente sia per quanto riguarda la loro gestione sia per quanto riguarda le loro reazioni e i loro rapporti con gli uomini, che di norma sono considerati i loro padroni. Ma per questi animali egli non aveva mai avuto un atteggiamento da padrone ne a parole ne pratico. Per essi aveva infatti un grande rispetto, non molto inferiore a quello verso gli uomini, che gli derivava dalle sue origini contadine quando ragazzino tra gli 8 e i 14 anni aiutava la sua famiglia nel gestire le mucche sia a casa, nella stalla, che al pascolo sui monti specie durante le vacanze estive. Il legame e il rispetto per essi nasceva non solo dalla consapevolezza che tutti questi animali erano indispensabili alla vita dell’uomo e che la facilitavano in tante situazioni come nel lavoro dei campi, nella guardia alla casa, nei trasporti dei prodotti agricoli e nella produzione di cibo ma anche dalla convinzione che questo rapporto dovesse tenere conto anche delle esigenze degli stessi animali senza che ci fosse un obbiettivo di sfruttamento predatorio nei loro confronti da parte dell’uomo poiché essi erano da intendersi come compagni di vita dell’uomo. Non si possono contare le sue poesie in bergamasco pubblicate su vari numeri di Zogno Notizie e in raccolte dedicate dove la mucca, la capra, il cane, la pecora, la gallina, il pulcino, l’oca, il mulo, l’asino, il bue, il coniglio, lo scoiattolo, la volpe, il lupo, l’aquila e altri animali compaiono a interpretare e a sottolineare i pregi o i difetti degli uomini o a rappresentare il loro modo di concepire la vita o, abbastanza di frequente, a costituire un monito per il comportamento non esemplare degli uomini non solo tra di loro ma anche verso gli animali stessi. Da queste pubblicazioni e dai suoi discorsi con noi appariva evidente che don Giulio era anche un ambientalista pioniere, convinto e informato, quasi si potrebbe dire un ambientalista radicale.
Altre conoscenze culturali di don Giulio si scoprirono quando chi scrive venne chiamato insieme all’amico Franco Carminati - Prida a collaborare alla pubblicazione del notiziario Zogno Notizie a partire dal 1977 circa sino al termine effettivo del suo mandato di parroco avvenuto nel dicembre 1999. Chi scrive si interessava di procurare articoli di ricerche storiche su Zogno e la Valle Brembana in generale e di correggere le bozze di stampa, le didascalie e l’orientamento finale delle foto che non di rado lo stampatore inseriva in modo capovolto. Franco Carminati procurava invece fotografie da lui scattate appositamente, vecchie cartoline di paesaggi o di personaggi zognesi o di occasioni importanti della vita come compleanni, matrimoni, feste religiose o altro e stabiliva una impaginazione di base di questo materiale. Il 90 per cento delle foto di copertina, e non solo, di Zogno Notizie di quegli anni sono di Franco Carminati. La correzione delle bozze da parte mia, sempre almeno due volte per ogni numero di pubblicazione, avveniva la sera in casa di don Giulio dopo cena e si protraeva non di rado sino quasi a mezzanotte e si svolgeva su copie cartacee poiché allora non era ancora diffusa la video scrittura su computer. In queste occasioni durante alcuni scambi di opinione nei momenti di pausa emersero le conoscenze di architettura antica e moderna di don Giulio che non è possibile elencare in questa sede. Basterà ricordare qui come egli ristrutturò da subito la chiesa parrocchiale riscoprendo ed evidenziando in modo elegante le sue strutture architettoniche del passato ma anche le fasi costruttive di vari decori e manufatti interni ed esterni, quali il restauro dell’organo Bossi della parrocchiale, il recupero della “Ragia” o raggiera che in certe solennità religiose illumina circondandolo l’altare maggiore e ancora lo spostamento del portico esterno con un restauro della chiesetta della Confraternità, i lavori di rifacimento completo dell’oratorio, concepito e realizzato unico sia per i ragazzi che per le ragazze già dal 1980 circa e infine il cospicuo ampliamento della casa di riposo per anziani “Don Giuseppe Speranza” a Zogno con nuovi importanti servizi di assistenza e la nuova simile struttura a Laxolo in comune di Brembilla. Durante questi particolari incontri emerse anche quali capacità di amministratore avesse don Giulio poiché inseriva sempre in ogni notiziario un lungo e minuzioso elenco di donazioni in contanti effettuate dalla popolazione zognese e un altrettanto minuzioso elenco delle spese sostenute dalla parrocchia per varie finalità sociali oltre che per il miglioramento e la manutenzione delle strutture edili della chiesa e degli edifici ad essa collegati come l’oratorio, il teatro, il cinematografo, il ricovero per anziani, la parte di asilo infantile gestito dalla parrocchia e altro. Quel resoconto così dettagliato delle entrate e delle uscite della parrocchia era un fatto nuovo per la comunità. La notevole generosità degli zognesi si poteva comprendere solo pensando che don Giulio dimostrava mese per mese di utilizzare per davvero in modo efficace ed efficiente a scopi benefici per tutta la comunità residente di Zogno, e per quella che operava al di fuori in missioni religiose e sociali, quella importante quantità di denaro.
Ma uno degli aspetti che maggiormente sorprese chi scrive fu lo scoprire che don Giulio era assai informato anche di ricerche storiche archivistiche in prevalenza di carattere religioso. Aveva iniziato poco dopo aver ricevuto i voti sacerdotali in modo spontaneo e occasionale per suoi personali interessi nell’Archivio Diocesano di Bergamo e in seguito, con l’aumentare dei suoi impegni parrocchiali, non potendo frequentare in modo assiduo l’archivio aveva incaricato e di tanto in tanto incaricava alcuni suoi amici, non solo sacerdoti, di procurargli le fotocopie di vari documenti di questo archivio. In particolare tra i non sacerdoti è necessario citare qui, anche per motivi di conoscenza diretta di chi scrive, i seguenti: il signor Giulio Pavoni di Alzano che procurò fin dai primi anni “80” del secolo scorso documenti sia dell’Archivio Diocesano di Bergamo che dell’Archivio di Stato di Venezia; il dr. Mario de Grazia direttore nel periodo 1979-1987 dell’Archivio di Stato di Bergamo con cui don Giulio ebbe una stretta amicizia e grazie al quale egli potè far restaurare uno dei volumi più antichi dell’archivio parrocchiale di Zogno; il dr. Bortolo Pasinelli di Fonteno autore di una cospicua opera sulla chiesa e sulla storia di questo paese; il dr. Gabriele Medolago di Carosso presso Almenno S. Bartolomeo che verso la fine degli anni “90” del secolo scorso ha fornito vari documenti dell’Archivio di Stato di Bergamo e il sottoscritto che fin dal 1980 ha procurato le fotocopie di numerose pergamene della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo.
Don Giulio dava la massima importanza anche alla conservazione dei registri parrocchiali convinto che in essi stavano le memorie scritte di gran parte delle tradizioni religiose di ogni comunità e raccomandava a tutti gli altri parroci della Valle Brembana di conservare e proteggere i propri registri parrocchiali anche se costituiti da pochi documenti poiché ogni minima traccia del passato in questo campo per don Giulio era preziosissima. Non si può dimenticare in questo contesto di citare i risultati ricavati dall’archivio parrocchiale sulla storia della chiesa e della parrocchia di Zogno apparsi in vari numeri di Zogno Notizie e i contributi da lui dati per completare le pratiche documentative per avviare il processo della beatificazione di don Giovanni Antonio Rubbi il “prevosto santo” di Sorisole di origini però zognesi. Ma in campo religioso don Giulio non si accontentava di scoprire solo i documenti scritti che per il passato egli considerava espressione di persone istruite che avevano un rapporto più distaccato con la religione ma ricercava anche le testimonianze dirette e materiali che esprimevano la condivisione e la partecipazione semplice e immediata della povera gente al fatto religioso attraverso la donazione di manufatti o oggetti di vario tipo intesi come arredo e arricchimento della chiesa e delle funzioni che celebravano le solennità più importanti sia dentro che fuori la chiesa. Questi manufatti e oggetti erano a volte realizzati direttamente da queste semplici persone a volte da artigiani locali con alcune capacità artistiche ma sempre sostenuti economicamente dalle offerte piccole ma numerose, diffuse e continue di tutti i fedeli della comunità. Questo tipo di ricerca sfociò nella concezione e realizzazione del Museo della Vicaria di S. Lorenzo, inaugurato attorno al 1984, che raccoglie testimonianze incredibili di queste espressioni: si va dagli affreschi dei primi anni del 1400, a quadri di ogni epoca di pittori noti e meno noti, a calici argentati o dorati, croci pure argentate o dorate, ostensori, vassoi per le elemosine, turiboli, catene per rosario, preziosi abiti cerimoniali dei sacerdoti e paramenti per la chiesa sia interni che esterni cioè per le processioni fatti di tessuto lavorato a mano o di ricami preziosi. Non mancano sculture in legno e in pietra, pure di varie epoche, e strumenti insoliti quali orologi di campanile, campane antiche con l’incisione della data o del fonditore, telai per sostenere le campane, pinze per stampare e produrre manualmente le ostie per la comunione, mortai di varie fogge per lanciare fuochi d’artificio durante le feste religiose più importanti e persino un organo di chiesa funzionante del XVII secolo. Si potrebbe continuare questo elenco ancora per molto ma non è questa la sede opportuna. Qui è utile ricordare solo che tutti questi oggetti provengono in gran parte da Zogno, dalla Valle Brembana e da pochi altri contesti religiosi bergamaschi e che questo museo è una delle opere più importanti realizzate da don Giulio.
Da quanto detto appare evidente che l’archeologia e la paleontologia erano due interessi tra i tanti che don Giulio coltivava sostenuto dalla sua grande curiosità e dalla voglia di vedere, sapere e conoscere. Era stupefacente per chi scrive la grande flessibilità mentale che egli dimostrava passando con molta facilità e in modo approfondito da un argomento culturale a un altro durante alcune delle discussioni avute col nostro gruppo. Queste sue conoscenze a carattere enciclopedico comunque non erano fini a se stesse, non erano solo un piacere personale come potrebbe essere un hobby o un passatempo moderno ma erano concepite all’interno di un obiettivo morale legato alla sua missione di sacerdote: quello di approfondire il più possibile i vari aspetti materiali e culturali della vita umana per condividerli con le altre persone, specie con i giovani, per scambiare delle opinioni e per suggerire e trovare con loro delle soluzioni quando vi erano delle difficoltà o delle incertezze in particolari momenti della vita ricorrendo spesso ad una battuta e ad un sorriso per allentare la tensione di questi momenti. Don Giulio non imponeva mai la soluzione ad un problema di esistenza umana o a un problema pratico o tecnico ma grazie alle sue grandi conoscenze, che costituivano delle importanti risorse psicologiche, suggeriva delle idee, degli spunti, faceva intravvedere nuovi sbocchi a un problema lasciando però a queste persone grande autonomia e libertà nel cercare e trovare con le proprie capacità e forze la soluzione più adatta alla loro condizione. Solo se richiesto egli interveniva ancora suggerendo altre iniziative discusse con l’interessato ma sempre rispettandone la dignità, la libertà e l’autodeterminazione. Don Giulio insomma era anche un eccellente educatore non solo perché non ostentava e non imponeva mai il suo grande sapere ma soprattutto perché era capace di instillare in modo intrigante in ogni persona la voglia, la curiosità di sapere e il desiderio di superare un ostacolo lasciando poi che ciascuno percorresse la propria strada per crescere a livello individuale, umano e sociale. Egli era particolarmente felice quando un giovane o una persona adulta grazie a questi scambi di idee ed opinioni superava certi momenti di difficoltà della vita. Non sono pochi i giovani di Zogno e di paesi vicini che in quegli anni scelsero per la loro vita tipi di studio o attività lavorative condizionati in senso buono da alcuni incontri di questo tipo con don Giulio. E che tutte le sue vaste conoscenze fossero finalizzate nell’aiutare comunque e in ogni modo in senso cristiano le persone lo si evince da un altro mantra che egli ripeteva spesso non solo quando era a contatto diretto con qualcuno di noi ma anche in varie conferenze che egli ha introdotto o presentato: “la storia quando è studiata con attenzione e passione è maestra di vita”. La storia intesa però da lui come l’insieme di tutte le manifestazioni delle attività umane cioè fisiche, intellettuali e religiose. Da questa convinzione derivava l’enciclopedismo culturale di don Giulio perché studiare, approfondire, conoscere e condividere con gli altri era per don Giulio un modo di amare. Don Giulio era un uomo con i piedi saldamente piantati nel passato ma totalmente proiettato nel futuro con i tanti progetti realizzati a scopo socio-culturale: gli insegnamenti del passato guidavano il modo di vivere il presente e permettevano di progettare concretamente il futuro.
Per chi, come per alcuni appassionati del nostro gruppo, ha avuto la fortuna di conoscere don Giulio abbastanza da vicino e per un tempo alquanto lungo si è trattato di un’esperienza umana e culturale non comune, profonda, coinvolgente e indimenticabile che ha lasciato un’impronta importante nel nostro vissuto. Il nostro ringraziamento per tutto quanto ha fatto, ha donato, ha insegnato o ci ha fatto vivere anche in non pochi momenti di sorriso non sarà mai sufficiente.

a cura di Giuseppe Pesenti con contributi di Gianfranco Pesenti

BIBLIOGRAFIA

Don Giulio ha scritto numerosi articoli di archeologia e preistoria sui numeri di Zogno Notizie tra ottobre 1974 e marzo 1985. Ha scritto anche su numeri successivi richiamando però i concetti espressi in precedenza.

La dr.ssa Raffaella Poggiani Keller oltre che aver curato la pubblicazione del volumetto: La sezione archeologica del Museo della Valle, edito dal Museo stesso nel 1980, e ripreso in Zogno Notizie del giugno dello stesso anno, ha riportato importanti relazioni archeologiche sui numeri di Zogno Notizie del dicembre 1982 e marzo 1985.

Il professor Andrea Tintori su invito di don Giulio ha illustrato problemi di geologia e paleontologia sui numeri di Zogno Notizie di dicembre 1979, agosto 1980, febbraio, marzo e giugno 1991, aprile 1997 (definizione del nome di un nuovo pesce, Gabanellia Agilis, dedicato a don Giulio con traduzione della relazione originaria pubblicata in inglese sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia da parte dell’autore del presente scritto), aprile 1998 (conferenza dello stesso professor Tintori tenuta al Museo della Valle per illustrare la scoperta di un nuovo e magnifico rettile marino, Ittiosauro, riportata dall’autore del presente scritto).

La partecipazione di don Giulio alla scoperta e al riconoscimento di un’antico gasteropodo ancora oggi vivente tre le rocce e gli anfratti della Presolana è descritta nel volume: Enula Bassanelli: Cochlostoma Canestrinii il mollusco della Presolana, Castelletti Grafica Immagine, Ponte Nossa, 2011.